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Il Dio dell’Arte-6

 ARTEMIS  

Artemis era frastornata: si era svegliata a causa di un messaggio inaspettato. Efil sarebbe passata a prenderla nel tardo pomeriggio per portarla alla villa del nonno di Pertev. Pare che Pertev l’avesse invitata a cena. Un uomo pericoloso, forse. Il giorno precedente lei gli aveva accennato di aver letto il manoscritto, e in quelle pagine erano racchiusi tutti i segreti della famiglia. Rivisitò mentalmente i brani su Pertev: narravano come il trauma di un dipinto raffigurante due uomini intenti a far l’amore l’avesse sconvolto e di come Musa gliel’avesse mostrato di proposito, salvo poi pentirsene. Era la sua maniera di vendicarsi del nonno di Pertev, che non aveva mai voluto ammettere: “È mio figlio.” Poiché Musa era cresciuto lontano dalla famiglia, benché fosse figlio di un uomo ricco e nobile, portava dentro di sé un’aggressività incontrollata, legata all’assenza di riconoscimento ufficiale, all’esclusione dall’eredità, all’incapacità di affrontare apertamente quel padre.  

Artemis ammirava l’abilità di Musa nell’analizzare la psicologia delle persone. Per anni, in disparte, aveva osservato le debolezze, l’ego e le false gioie dei potenti. Qualcuno che avesse letto quel libro, avrebbe concluso che Musa fosse l’unico puro in mezzo a una schiera di “demoni.” Ma agli occhi di Artemis, Musa restava l’uomo col bastone che, di tanto in tanto, si scagliava in scoppi d’ira senza senso, una figura divina dipinta in un’icona sacra, ma priva di angeli al seguito. “Meglio credere a ciò che vedo,” si disse, “piuttosto che a ciò che sento raccontare.”  

Si chiedeva se Pertev stesse scontando i peccati del nonno. Cosa poteva espiare un uomo che ignorava la povertà? Uno che non aveva limiti, né preoccupazioni economiche, che conduceva la vita d’affari come un hobby e maneggiava l’arte come fosse un giocattolo. In certi Paesi, la gente segue il vento, e chi controlla i soldi e la fama trascina la massa dove vuole. Forse quell’uomo stava effettivamente orientando l’arte del paese. Le sue opere, se esposte altrove nel mondo, avrebbero scatenato obiezioni da parte di molti addetti ai lavori, eppure lì, tutti lo acclamavano, incensavano ogni sua iniziativa. In fondo, era ricco e potente.  

Dopo aver letto il libro, ad Artemis pareva di assistere da un cantuccio alla storia della famiglia. Capiva perché Musa non avesse mai fondato un proprio nucleo familiare: era cresciuto senza affetto. E il resto della stirpe? Senza amore anche loro. I soldi non portavano la felicità… Se Musa fosse nato come figlio di un uomo qualunque, non sarebbe salito così in alto. Artemis comprese ancora una volta di non essere nulla senza raccomandazioni; un pensiero che le rimbombava nelle orecchie come un acufene.  

Qualcuno suonò alla porta. Lei, con un mal di testa, prese un analgesico e si rimise a letto. Erano poliziotti in borghese. Artemis dubitò, ma loro mostrarono i tesserini. Miopie com’era, li esaminò quasi mettendoli contro gli occhi e, tenendo la porta socchiusa, li fece entrare. Avrebbe potuto anche chiamare un vicino di casa a farle compagnia, se voleva. Offrì loro dell’acqua, ma gli agenti, come da prassi, rifiutarono. Iniziarono con le domande sulla morte di Musa. Artemis cominciò a piangere, senza riuscire a trattenersi. I poliziotti si scambiarono uno sguardo, sperando che dal suo racconto emergesse qualcosa. Lei spiegò che Musa, inferocito, le aveva urlato al telefono per la sua indiscrezione, ponendo fine al tirocinio. Secondo lei, era morto arrabbiato con lei. Artemis si colpevolizzava. Gli agenti imputarono quelle lacrime a uno squilibrio emotivo, magari ormonale. Poi spiegarono che Musa si interessava di arte e custodiva l’elenco di opere nella collezione di Pertev. Gli serviva quel documento perché conducevano un’indagine sul contrabbando di reperti storici. Inoltre, non erano riusciti a recuperare il computer di Musa. Artemis ne fu sorpresa e ipotizzò che il giorno del funerale qualcuno avesse potuto rubarlo. Chiesero anche dove fosse andato Musa la notte prima di morire, ma lei non lo sapeva: forse Maya, la governante, ne era al corrente. Artemis si rimise a piangere, sostenendo che fosse morto di crepacuore perché arrabbiato con lei. I poliziotti, un po’ annoiati, lasciarono la loro mail per ottenere l’elenco delle opere. Artemis non fece parola del libro: non era affar loro.  

Prima di uscire, il poliziotto che collaborava con Akuji le disse che, sul cellulare di Musa, avevano trovato un messaggio per lei, mai inviato. Musa, nel cuore della notte, aveva scritto: “Devi pubblicare il libro!” Artemis sgranò gli occhi. Poi tornò a singhiozzare: “L’ho ucciso io…” Uno degli agenti provò a tranquillizzarla: era un uomo anziano, in fondo, e i malori capitavano anche ai giovani. Meglio così che un male peggiore…

LISSA  

Lissa stava depositando in banca i mille dollari che Akuji le aveva dato. Il cassiere la squadrò dalla testa ai piedi. Temeva che le chiedesse in qualsiasi momento da dove arrivasse quella somma. Ai suoi occhi, la provenienza poteva essere furto, prostituzione o traffico di droga. Spiegare che Akuji era diventato un’“opera d’arte” e per questo aveva incassato soldi da affidarle, sarebbe sembrato assurdo. Quel denaro, in verità, era destinato alla loro vita futura. Era un piccolo sollievo. Se Lissa avesse perso il lavoro, quei mille dollari l’avrebbero aiutata a sopravvivere per un po’, ma senza Akuji non voleva spenderne un centesimo. Intanto, per mettersi al sicuro, aveva programmato un altro colloquio, perché la situazione in fabbrica si complicava. Il padrone la spingeva ogni giorno a fissare la data delle nozze con l’operaio forzuto. Non era l’uomo a pretendere di sposarla, ma proprio il capo. Le aveva concesso una settimana di tempo. Ma Akuji non si faceva vivo, e lei non poteva parlarci per cercare una soluzione. Il suo “capolavoro” era scomparso.  

Lissa si presentò a un colloquio in una stazione di servizio, in piena città. Era vicina a casa, le sarebbe andato bene. Il titolare sembrava pronto ad assumerla, freddo e pacato. Proprio in quel momento, comparve la figlia di lui e, vedendo Lissa, fece una smorfia al padre. Lissa sperò che, prima o poi, la gente si abituasse al suo colore di pelle. Continuava a ripeterselo mentalmente. Forse un giorno lo avrebbe gridato a voce alta. Ma il risultato fu che il lavoro saltò. Probabilmente avrebbero preferito assumere una donna col velo in testa, bassa di statura e robusta, che avrebbe percorso chilometri per arrivare. Lissa rimase un po’ nella caffetteria del benzinaio a sorseggiare un caffè, incrociando gli sguardi con la figlia del proprietario. Poi andò via, senza voltarsi.  

Alla scrivania della polizia, intanto, giaceva il fascicolo sul contrabbando di opere antiche. La morte di Musa diventava sempre più sospetta: l’assistente che diceva “Sono stata io a ucciderlo,” il computer scomparso… Un carico di dubbi. Analizzando i filmati delle telecamere, si notò che la notte prima di morire, Musa era salito su un’auto nera, senza targa leggibile. E poco dopo la mezzanotte, Akuji era stato ripreso vicino allo stesso edificio. Forse qualcuno aveva manipolato il video. Che ci faceva Akuji lì? Quale legame c’era con Musa? Il poliziotto aprì anche il dossier su Pertev: all’interno c’erano le foto dei migranti scomparsi. E gli tornò in mente la frase di Artemis, quella ragazza profumata di cibo vegetariano: “Dovreste proprio vedere la mostra di Pertev…”

EFIL

La collezione di Pertev stava riscuotendo grande successo. Ed Efil, ancora una volta, si godeva i frutti del suo ruolo, sfoggiando la piega perfetta e un elegante tailleur color crema. L’intervista che aveva rilasciato al museo era durata un’ora. Alla fine, notò il padre di Pertev all’ingresso e gli si avvicinò in fretta. L’uomo era piuttosto freddo nei suoi confronti. Disse di trovare alcune opere insensate, ma di constatare che la gente ne andava matta. Efil, a bassa voce, provò a spiegargli che era stato Pertev a sceglierle. L’uomo la scrutò:  

«E allora come mai in mostra c’è il tuo nome?»  

Cercò di giustificarsi, sostenendo che l’arte più ardita dovesse sfidare il buonsenso, ma il padre di Pertev le fece cenno di tacere:  

«Tanto, fra poco chiuderò il museo.»  

Poco dopo, Efil si rifugiò in bagno. Allo specchio, era sul punto di piangere. Se il museo avesse chiuso, Pertev l’avrebbe messa da parte. Doveva trovare il modo di rientrare nelle sue grazie. Ogni strategia recente sembrava fallita. Eppure, una volta, Pertev la adorava. Come si era creata quella frattura? Forse per questioni familiari, che mettevano in difficoltà anche lei. Aveva troppe responsabilità, tra la banca e la ricerca di nuovi artisti da lanciare. Se in Turchia il suo nome era rinomato, in America nessuno l’avrebbe conosciuta e chissà quanto tempo ci sarebbe voluto per emergere. Con l’umore a terra, si ricordò che Pertev aveva organizzato una cena in villa per Artemis. Forse lei, Efil, poteva trasformare quell’assurda serata in un momento indimenticabile, recuperando punti agli occhi di Pertev. Decise di uscire e di schiarirsi le idee.  

Salì in auto e andò a prendere Artemis a casa. La ragazza era tesa, incerta se confidarle o meno la visita della polizia. Temeva di dire qualcosa di troppo. Efil pensò che il suo silenzio fosse un segno d’inimicizia. Cercò di rompere il ghiaccio:  

«Ho parlato in quella galleria. È fatta, sei assunta! Hanno anche contatti europei, è un’ottima opportunità.»  

Artemis si rallegrò per la notizia e, pur sentendosi ancora diffidente, riconobbe l’influenza positiva di Efil. Con tono distaccato, le disse che aveva con sé la chiavetta con il libro, se fosse stata curiosa di leggerlo. Efil scosse la testa, poco interessata alle vicende di una famiglia che le pareva complicata. Artemis le chiese allora se avesse visto Musa la sera prima che morisse. Lei rispose di no e cambiò discorso, chiedendole, con malizia:  

«Hai un fidanzato?»  

Artemis, sorpresa, replicò: «No.» Efil rise senza spiegarsi. Artemis si girò a guardare fuori dal finestrino: la grande villa del nonno di Pertev luccicava.  

Entrarono. Pertev arrivò dalla sua stanza come se le accogliesse da semplici ospiti. Efil si sentì ferita: lei era parte della casa, no? Perché Pertev stava riservando tutte quelle attenzioni ad Artemis, una principiante senza alcun titolo? Avrebbe potuto farsi mandare il libro via mail, dopotutto, o chiederlo a Efil. Era chiaro che la stava coinvolgendo per qualche motivo. Forse Efil la temeva, temeva che Artemis potesse scoprire i segreti più audaci delle performance. O, peggio, prenderne il posto. Poi colse lo sguardo di ammirazione di Artemis e recuperò un po’ di fiducia in sé.  

Pertev invitò Artemis a salire per mostrarle la collezione di antiquariato del nonno. Efil, invece, decise di controllare le telecamere nella stanza delle performance. Scoprì che non c’erano più. Dal computer visionò i file video. C’erano le immagini della fatidica sera di “Pompei,” dopodiché due uomini trascinavano Musa fuori. Efil rimase sconvolta. Significava che Musa aveva assistito in privato a quella performance, magari gli era preso un infarto proprio allora. O forse lo ebbe più tardi, ma di certo gli eventi erano confusi e si prestavano a ipotesi di reato. Fece avanzare la registrazione: a un certo punto, entrò un biondo, si voltò verso la telecamera, sorrise in modo sinistro e la staccò. Efil non lo aveva mai visto. Sicuramente, quella sera Pertev avrebbe preteso spiegazioni anche da lei.  

La tavola per la cena era apparecchiata per quattro. Artemis e Pertev, affiancati, ridevano tra loro. Efil si chiese se l’ultimo posto fosse per il padre di lui, ma ecco comparire dalla porta il biondo che aveva visto nel video. Pertev gli andò incontro e lo abbracciò:  

«E questo affascinante signore è il mio psicologo.»  

Artemis sorrise:  

«Davvero? Siete ricchissimi, nel senso che siete circondati da persone di ogni genere…»  

Pertev e il biondo risero. Efil capì che quello era l’uomo che aveva staccato la telecamera con tanta sfrontatezza. Parevano escluderla, come se fossero un terzetto a cui lei non avesse diritto di unirsi.  

Si sedettero a tavola. Artemis porse a Pertev la pen drive:  

«Ecco, il libro è qui dentro.»  

Pertev la ringraziò, commentando che avrebbe potuto darlo al padre e continuare il suo stile di vita bohemien ancora per un bel po’. Poi si rivolse ad Artemis:  

«Secondo te, vale la pena pubblicare questo libro?»  

Lei spiegò che, in termini letterari, era carente, seppur scorrevole e destinato a diventare un best seller. Se Musa avesse avuto figli, di sicuro avrebbero fatto realizzare un film tratto da quell’opera, incassando fior di quattrini. Tuttavia, certi passi – come quello della riesumazione del nonno per fare un test del DNA – avrebbero compromesso la reputazione della famiglia. Pertev restò di sasso:  

«Come? Hanno aperto la tomba di mio nonno?»  

Il biondo, posandogli una mano sulla spalla, ridacchiò:  

«Su, non pensarci. Godiamoci la serata…»  

Efil era sempre lì, ma ignorata. Decise di aspettare con pazienza.  

Il biondo tirò fuori una bottiglia di liquore verde: ormai i piatti erano stati gustati, era l’ultimo brindisi. Efil, dovendo guidare, non aveva toccato alcol, ma lui insistette che almeno assaggiasse un sorso di quell’intruglio. Alla fine, si trovarono tutti e quattro a bere in un colpo solo. Un gusto insolito, penetrante. Sembrava sbloccare i sentimenti più profondi.  

PERTEV  

A volte, cenare con gente “normale” gli dava un insolito piacere. Si sentiva libero, come se passeggiasse per strada, fuori dal proprio rango. Quell’ultimo sorso di liquore lo fece sentire tanto a suo agio che iniziò a parlare con grande franchezza, certo che il giorno successivo nessuno avrebbe ricordato nulla. Osservò il biondo negli occhi, afferrandogli la spalla:  

«Quando incontrai quest’uomo, ero giovanissimo. Nella seduta a Londra mi fece tornare bambino. Mi ritrovai alla scena in cui beccai mio padre con quell’uomo…»  

Efil e Artemis non credettero alle proprie orecchie. Artemis lo incalzò:  

«Quale uomo?»  

«Il suo braccio destro… Musa, zio Musa. Mi mostrò un quadro che ritraeva quell’episodio: mio padre e il suo braccio destro.»  

Ora era tutto chiaro.  

«Ecco il mio trauma.» disse Pertev. Il biondo lo abbracciava, Efil provava gelosia senza capirne il motivo. Il biondo guardò Pertev con tenerezza:  

«Io, chi sono per te?»  

«Tu sei il mio braccio destro.»  

Efil avvertì come un nodo in gola e mormorò:  

«Ma il tuo braccio destro sono io…»  

Sorpresa dal suono della sua stessa voce, si zittì. Artemis le strinse la mano, confusa anche lei. Pertev scoppiò a ridere. Il biondo sussurrò:  

«Il braccio destro che ha piazzato le telecamere nascoste…»  

Efil arrossì, divisa fra rabbia e vergogna, eppure sentiva il corpo intorpidito. Artemis si appoggiò a lei:  

«Ho la nausea, credo di… di dover vomitare.»  

Efil la condusse in bagno, in lacrime. Pertev, nel frattempo, scomparve con il biondo verso un’altra stanza. Efil scortò Artemis nella sala delle performance. La ragazza era pallida, ma non riusciva a rimettere. Artemis rise istericamente:  

«E così, Musa è morto qui?… Allora non sono stata io…»  

Pertev e il biondo osservarono la scena da uno spiraglio. In realtà, Efil desiderava realizzare una performance irripetibile e sperava che Pertev gliene desse l’occasione. Accarezzò i capelli di Artemis, distesa sul divano, come se galleggiasse. Poi iniziò a spogliarsi. Artemis cercò di protestare, farfugliando:  

«La polizia…»  

Ma Efil la baciò sulle labbra. Artemis, intontita, non riuscì a reagire. Rotolarono sul divano, iniziarono a fare l’amore. In quella penombra, Pertev e il biondo provavano eccitazione nel guardarle. Il biondo sfiorò le spalle di Pertev. Efil baciava il seno di Artemis. Lei, che non aveva mai conosciuto il sesso, perse la verginità in quella camera destinata alle performance. Stordita, non opponeva resistenza; Efil, turbata, notò il sangue sulle mani. Lo strofinò sul lenzuolo, poi si strinsero l’una all’altra. Artemis svenne. Efil, sentendosi girare la testa, afferrò le lenzuola sporche e uscì.  

Alla porta la aspettava il biondo, con un cestino di bambù. Senza parlare, Efil ci mise dentro il lenzuolo. Lui sorrise e voltò le spalle.  

Pertev, si disse, avrebbe appeso quel lenzuolo insanguinato all’ingresso del museo, corredandolo di una storia provocatoria. E i filmati, montati dal biondo, sarebbero diventati un capolavoro unico nel suo genere. Pertev non conosceva alcun limite. Lui era **Il Dio dell’Arte**.




Tutti i diritti appartengono all’autrice Evrim Ozsoy. È vietata qualsiasi citazione.  

Progetto di una serie in sette episodi: "Il Dio dell’Arte"

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