ARTEMIS
Artemis stava conversando con Musa già da un’ora intera. Lui le raccontava di aver frequentato, dalla scuola primaria fino all’ultimo anno di liceo, i collegi più prestigiosi del paese. Sua madre era una domestica, il padre un giardiniere. Ma Musa era rimasto orfano in tenera età. Le scuole d’élite, riservate agli allievi più brillanti, gli avevano fatto sostenere vari test e ne erano rimaste affascinate dall’intelligenza. La madre, pur di dargli la migliore istruzione possibile, aveva accettato di separarsene quando era ancora un bimbo, consegnandolo con una piccola valigia in mano a un istituto francofono. Crescendo, Musa sarebbe diventato francofono e questo, a suo dire, gli avrebbe spalancato ogni porta.
Artemis lo ascoltava come se fosse incantata e, per timidezza, quasi non gli faceva domande. Musa raccontò di aver proseguito gli studi universitari a Parigi, specializzandosi in Storia dell’Arte e conseguendo il dottorato. Tuttavia, invece di restare all’estero, aveva preferito tornare in patria e insegnare ai giovani ad amare l’arte, facendone la sua missione. Iniziò la carriera pubblicando brevi articoli su un giornale, per poi passare all’insegnamento universitario e infine, con la crescente espansione dei media, la popolarità gli era piovuta addosso. Ricordava con grande affetto sua madre: era grazie a lei se era arrivato così lontano. «Ah, se solo fosse ancora viva,» disse, «avrebbe potuto sedersi con me in un angolino di questa grande casa…» Purtroppo i lavori domestici l’avevano consumata anzitempo, provocandole una cardiopatia fatale, e poi alcune cure mediche sbagliate l’avevano portata a spegnersi prematuramente.
«Anche io devo molto ai miei genitori,» disse Artemis.
Musa, per tutta risposta, domandò: «Quante pagine ti restano da trascrivere?»
La ragazza balbettò: «Direi… parecchie ancora.»
Musa allora chiamò Maya per farsi servire il pasto quotidiano. Artemis sapeva già cosa fare: si alzò, conoscendo perfettamente il suo posto. Nel giro di qualche ora, arrivarono gli studenti di Musa, tutti iscritti a Storia dell’Arte. Uno di loro raggiunse la cucina e, di nascosto, mise una torta in frigorifero. Quel giorno, infatti, era il compleanno di Musa. Perciò il professore, così brusco di solito, le aveva concesso di intrattenersi un po’ con lui. Mentre Maya portava e riportava da bere ai ragazzi, suonarono alla porta. Artemis, sentendosi in dovere di intervenire, la aprì. La prima cosa che vide furono un paio di stivali di vernice rossa; poi, alzando lo sguardo, notò una donna di mezza età, vestita di nero:
«Ciao, è già iniziata la festa?» domandò la donna.
Artemis, con voce sottile, rispose: «Sono tutti ancora a lezione…»
La sconosciuta le porse la mano con disinvoltura: «Io sono Efil. E tu?»
Artemis, sfiorando la sua mano calda, ebbe un piccolo brivido: «Mi chiamo Artemis,» disse.
«Ah, sei tu la “Arte” di Musa?» ribatté Efil, stupendola. Come poteva Musa parlar di lei a qualcun altro, dal momento che a malapena la degnava di uno sguardo?
Efil, con semplicità, chiese ad Artemis quale profumo indossasse. Artemis ne fu sorpresa e intanto spalancò la porta del salone. Rimase dietro, indecisa. Ma Efil la prese per mano e la trascinò dentro:
«Buon compleanno, monsieur!» esclamò, e subito tutti gli studenti scoppiarono in applausi.
Con l’arrivo di Efil, l’intera sala si era alzata in piedi per salutarla con grande rispetto. Maya, dal canto suo, portò la torta dalla cucina. Così, grazie a Efil, anche Artemis si trovò nel mezzo della stanza dove si svolgeva la festa. Quella donna, con i suoi stivali rossi, emanava un fascino irresistibile. Artemis sentì un moto d’ammirazione.
Musa si guardò attorno, cercando il bastone. Artemis, intuendo il suo bisogno, glielo porse all’istante. Efil rise:
«Ma a cosa serve ora?»
Musa, divertito, le rivolse un sorriso. Fece un cenno di assenso ad Artemis:
«Arte, hai visto? Un anno in più sulle spalle!»
Uno studente accese della musica francese, un altro cominciò a scattare fotografie, mentre Efil stappò lo champagne. Era la prima volta, da quando era arrivata in quella casa, che Artemis si sentiva a proprio agio, come se in fondo avesse un ruolo da protagonista.
Mentre si recava in bagno, venne a sapere, facendo una rapida ricerca sul cellulare, che Efil era una curatrice d’arte molto nota. All’interno, tutti le mostravano qualcosa, cercando di attirarne l’attenzione. Lei si concesse una breve pausa in bagno per ritoccare il rossetto rosso. Artemis stava giusto uscendo, quando Efil la fermò:
«Aspetta, potresti controllarmi il rossetto?»
Applicato il rossetto, Efil strinse le labbra, si avvicinò ad Artemis:
«Allora, come sto? Ho sbavato?»
Artemis guardò attentamente i suoi occhi, poi la bocca:
«No, è perfetto,» rispose.
«Grazie,» disse Efil, per poi aggiungere qualche domanda su ciò che Artemis stava facendo a casa di Musa. Artemis spiegò che si occupava di digitalizzare i suoi manoscritti.
«Ah, e c’è anche quel libro sulla collezione, vero?» incalzò Efil, mentre in realtà il suo rossetto si era un po’ sbavato.
Nonostante quell’imperfezione, era chiaro che Efil volesse informazioni. Artemis mormorò che doveva lavorare più in fretta, vista la mole di materiali. Efil:
«Quanto ti manca a finire lo stage?»
«Un mese, se mi impegno ogni giorno. È un sacco di roba, poi pare che vogliano pubblicare anche le sue memorie in un libro… Mi hanno detto che c’è già un editore interessato.»
A quelle parole, Efil rimase per un attimo gelata:
«Memorie? Credevo si trattasse soltanto della collezione di Pertev…»
Non si rese conto che Artemis, in quell’istante, aveva rivelato per sbaglio un segreto sulle intenzioni di Musa. La ragazza spiegò che avrebbe impiegato una decina di giorni per la sezione dedicata alla collezione, ma molto più tempo per le memorie. Contenta dell’informazione carpita, Efil si allontanò, fingendo di aver ricevuto una telefonata urgente dalla galleria d’arte.
Artemis tornò al suo computer, sistemato in cucina. Decise di farsi una copia di tutti gli appunti di Musa su una chiavetta: se mai avesse perso i dati, avrebbe avuto un backup. Trovò persino una cartella dal titolo “Lezioni d’arte, Conversazioni e Vecchie Interviste” e salvò anche quella. In fondo, pensò, se Musa non la includeva mai nelle sue lezioni, lei aveva diritto di imparare da sola, no?
Dopodiché andò a fare gli auguri di compleanno a Musa, dandogli un bacio sulle guance. Il professore, con un raro slancio di affetto, rispose:
«Arte, anche tu sei una presenza preziosa qui.»
Quella sera, mentre Artemis stava per addormentarsi, squillò il telefono: era Musa. Sconcertata, rispose temendo che gli fosse successo qualcosa. Invece lo sentì furibondo:
«Non hai nulla da fare, invece di spifferare a tutti ciò che scrivo? Maledetta! Hai rovinato tutto!»
La voce di Artemis si ritrasse in un silenzio impaurito. Musa urlò:
«Come hai potuto dire che sto scrivendo le mie memorie? L’hai detto a tutti?»
Artemis cercò di difendersi:
«Io… sto lavorando alla parte sulla collezione, per le memorie invece…»
Musa la interruppe:
«Sparisci dai miei occhi, ho accolto in casa mia un serpente!»
E riattaccò. Artemis tirò un sospiro di sollievo, almeno l’ennesima sfuriata era finita. Restò sveglia fino all’alba, con i nervi a fior di pelle. Prese un antidolorifico, pianse. Se fosse restata zitta a subire tutto, sarebbe stato meglio? Dopotutto, che colpa aveva se Musa voleva pubblicare una biografia? Non era forse normale che si venisse a sapere?
“Se proprio desiderava mantenere il segreto,” si disse, “perché invitarmi in casa sua?” Pensò che un uomo che telefona nel cuore della notte a una ragazza giovanissima per insultarla avesse ben poco da aspettarsi dalla vita. “Ecco perché è solo, ecco perché è infelice,” concluse mentalmente. “Si diverte ad amareggiare anche gli altri.” Se l’avesse istruita sin dall’inizio, spiegandole come comportarsi con il materiale delicato, lei avrebbe capito. Aveva forse bisogno di dirle “Taci su tutto, è un segreto”?
Il tormento la fece correre in bagno, dove rigettò la fetta di torta di compleanno. Si sentì più sollevata. E la speranza di una buona referenza da parte di Musa, capì, era andata in fumo.
LISSA
Lissa aveva un paio di jeans bianchi e una giacca rossa. Si specchiò in una vetrina per vedere se i pantaloni enfatizzassero troppo i suoi fianchi. A lei quel rosso piaceva. Avrebbe voluto sentirlo dire anche da Akuji. Eccolo lì: appena lo vide, Lissa ebbe l’impressione di non incontrarlo da anni e si lasciò avvolgere nel suo abbraccio, aspirandone il profumo familiare. Poi si diressero a un ristorante etiope in piazza Taksim, entusiasti perché quella sera ci sarebbe stato un gruppo di danza tradizionale.
Akuji, salendo le scale, le prese la mano:
«Allora, ballerai con le ragazze?»
Lissa arricciò le labbra in segno di diniego. Lui la sostenne dolcemente e, una volta entrati, mangiarono e chiacchierarono per tutta la serata. A Lissa, intanto, era colato dell’olio sul pantalone bianco. In bagno si accorse che le si era gonfiata un po’ la pancia. “Pazienza,” pensò, “ho un fisico formoso, non posso farci granché.” Rinunciò al dolce, conclusero con un caffè etiope.
Akuji le disse di non preoccuparsi del conto, di prendere pure il dessert che desiderava. Lei, però, rifiutò con un sorriso: si sentiva già appagata dal modo gentile con cui lui la trattava, senza pretendere nulla in cambio. Tanti uomini, al suo posto, avrebbero pensato subito al matrimonio e l’avrebbero costretta a lavorare anche in casa, ma Akuji parlava sempre al plurale: “Noi”. Non era egoista.
Poi iniziò a parlare del nuovo lavoro che aveva trovato: un vecchio palazzo fuori Istanbul, in cui si occupava della manutenzione del giardino. Lissa domandò come mai l’avessero scelto, dato che i ricchi di solito hanno giardinieri fissi. Akuji spiegò che un conoscente, sapendo che in Africa faceva lo stesso mestiere, l’aveva consigliato. Inoltre, era discretissimo e affidabile. A quanto pare, in quel palazzo le piante, gli alberi e perfino l’arredamento del giardino cambiavano in continuazione, e c’era un viavai di persone, specie la notte, in misteriosi pulmini neri che entravano e uscivano in un’ora.
Lissa chiuse gli occhi, detestava quel genere di situazioni. Akuji la strinse:
«Tranquilla, non mi riguarda. Io mi limito alla zona esterna: lavoro a orari stabiliti, poi mi ritiro nella dépendance a mangiare e dormire.»
Lissa lo sollecitò a trovarsi un altro impiego, ma Akuji rispose:
«Amore mio, ho raccolto carta nei vicoli per mesi, guardati le mie mani. Almeno, potando rami e lavorando la terra, mi sento più dignitoso. E magari, se tutto va bene, ottengo un permesso di lavoro grazie ai proprietari. E allora potremo costruire la nostra vita insieme, lì.»
Lissa s’illuminò. Aveva adorato quel “amore mio, la nostra vita”. Nel frattempo, sul palco, alcune ragazze a piedi nudi iniziarono a danzare al ritmo della musica etiope. Akuji la incoraggiò ad aggregarsi, e Lissa si costrinse ad alzarsi, ballando in modo goffo, tutta accaldata. Lui la baciò. Lei corse di nuovo in bagno per sciacquarsi: non voleva che Akuji sentisse l’odore del sudore.
Proprio in quell’istante si udì un urlo penetrante:
«Polizia, tutti in fila con i documenti!»
Lissa si spaventò per Akuji: lui era clandestino, sarebbe stato arrestato? Corse fuori dal bagno, ma al tavolo non c’era più. Cercò con lo sguardo per vedere se l’avessero preso. Un poliziotto dalla carnagione olivastra le intimò:
«Documenti.»
Lissa consegnò la carta d’identità, poi il permesso di soggiorno. Il poliziotto glieli restituì con noncuranza:
«Vai, sei a posto.»
Tornò al tavolo: anche di Akuji non c’era traccia. Evidentemente era riuscito a scappare, a meno che non si fosse infilato sotto qualche tappeto… Vide che aveva lasciato abbastanza denaro per pagare il conto. Lo fece e uscì di corsa dal ristorante, con la serata in frantumi. Percorse alcune strade nel tentativo di trovarlo, ma senza esito. Evitò di chiamarlo, temendo di farlo scoprire, nel caso si fosse nascosto da qualche parte. Così, ormai sfinita, tornò a casa.
Akuji, intanto, era riuscito a seminare la polizia correndo tra i vicoli di Tarlabaşı, infilandosi in uno stabile comunale dove la guardia di turno dormiva. Si accovacciò lì, immobile, per due ore, quasi senza respirare. Quando le pattuglie si ritirarono, uscì in punta di piedi, senza osare contattare Lissa: avrebbe aspettato l’alba per mandarle un messaggio di rassicurazione. Ma a un tratto si accorse di essersi storto la caviglia durante la fuga. Si rimise la giacca al contrario, calzò un berretto, raccolse qualche scatolone ai margini di un cassonetto e, zoppicando, si allontanò dal centro.
EFIL
Efil attendeva il suo turno davanti allo studio del ginecologo. L’infermiera la chiamò con tono deciso:
«Signora Elif, tocca a lei.»
Efil, già stizzita, precisò con calma forzata:
«Mi chiamo Efil, non Elif.»
La ragazza si scusò, aggiungendo che il nome era molto bello, e le chiese che significato avesse. Efil spiegò che suo padre desiderava tanto un figlio maschio, per dargli il nome di una delle porte del paradiso, ma era nata lei. Il nome, allora, fu adattato in “Efil”, che in alcune espressioni popolari indicava il soffio del vento. La ragazza sgranò gli occhi:
«Ah sì, come quando si dice “Efil efil esti”? Forte!»
Poi Efil entrò dalla ginecologa, la quale la invitò energicamente a considerare la possibilità di farsi congelare gli ovuli. Efil protestò, dicendo di non voler sposarsi né avere figli. La dottoressa insistette: era l’ultimo periodo utile per farlo; d’altronde, avrebbe avuto cinque anni di tempo per cambiare idea. Inoltre, la vita riservava sorprese. Le diede una settimana per riflettere. Aveva intuito la solitudine e l’incertezza di Efil. Alcuni medici, guardando negli occhi i pazienti, capiscono subito molte cose. E a Efil, in realtà, mancava l’affetto.
Fuori dall’ospedale, incrociò una donna con indosso la camicia da notte, coperta appena da un giubbotto, che stava fumando. Era evidentemente una neomamma, così concentrata sul bambino da ignorare tutto il resto. Il marito si avvicinò, lei gettò via la sigaretta innervosita e rientrò. Efil si chiese: “Se mai diventassi madre, come sarei?” Immaginò prima una figlia femmina, che sarebbe stata la sua copia in miniatura—impensabile da gestire! Forse un figlio maschio sarebbe stato più facile per una madre single… E la solitudine? Avrebbe trovato qualcuno, o abbandonato il sogno di New York? La mente vagava in speculazioni inutili. Quando stava per rispondere a una chiamata sul cellulare, un uomo le si avvicinò porgendole una grossa scatola di cioccolatini:
«Ho appena avuto un figlio!»
«Congratulazioni,» mormorò lei con un sorriso.
Poi si ricordò delle due “tsantsas” e del fatto che avrebbe dovuto mostrarle a Pertev. Gli mandò un messaggio vocale, narrando la storia da Romeo e Giulietta dell’Amazzonia, e dicendogli che aveva preparato una sorpresa da un mese. Lui rispose, invitandola subito alla villa di famiglia. Efil si precipitò in auto. Mentre guidava, delle macchine sfreccianti la innervosirono, ma mantenne una velocità costante in corsia centrale. Prese a ripetere ad alta voce il discorso che avrebbe fatto a Pertev: prima avrebbe parlato di altre performance, poi avrebbe mostrato i reperti delle teste rimpicciolite, evitando di passare per una che gli portava qualsiasi stravaganza senza criterio.
Alcuni giovani performer avevano proposto idee interessanti, ma nessuno era abbastanza audace. Guidare non le permetteva di riflettere a fondo. Avrebbe voluto fermarsi in un caffè, ma non ne vide. Finalmente s’imbatté in una specie di bar di paese. Si sedette, ordinò un tè: i vecchi avventori la guardavano come fosse un’aliena. Fuori, due cani randagi presero a copularsi, suscitando le proteste di qualche uomo che uscì a cacciarli. Un altro mormorò:
«Vi pietrificate, se guardate.»
E ridacchiarono tra loro. Efil pensò agli animali imbalsamati, a come le scene di sesso tra persone sembrassero sempre finte agli occhi del pubblico. Forse serviva qualcosa di più estremo. Il sesso omosessuale, da un po’, le pareva banale se inscenato senza verità. Aveva bisogno di pathos, sangue, lacrime, fluidi corporei e dolore, di qualcosa da “cristallizzare” come gli ovuli in provetta. Si sentiva gelata dal vento che le colpiva il ventre. Risalì in macchina e raggiunse la villa del nonno di Pertev.
Mentre stava entrando, il cellulare squillò: era un amico di New York che le offriva un posto in un museo oltreoceano. Avrebbe dovuto pensarci, ma chiuse la conversazione con un “Ti richiamo, prometto.” Non aveva alcuna intenzione di farsi distogliere dal progetto. Si mantenne ferma nei propri intenti e fu introdotta da Pertev in uno dei saloni della villa. Nelle mani aveva la scatola con le teste amazzoniche.
Prima gli illustrò vagamente i piani per un futuro show, facendogli pregustare qualcosa di sorprendente. Lui sorrise, contento. In effetti, Efil ammise che per talune persone più conservatrici il performance art sarebbe stato uno shock, ma si offrì di organizzare, per loro, un allestimento parallelo, meno cruento. Pertev ridacchiò:
«Non pensare alla reputazione. Fai come credi!»
«Allora bene, la chiameremo performance “Pompei”.»
Pertev quasi non ascoltò il racconto di Romeo e Giulietta dell’Amazzonia; l’idea di Pompei lo elettrizzò. Efil, emozionata, aprì la scatola, indossò i guanti e gli mostrò le testoline rimpicciolite. Ma lui, con aria distante, domandò:
«Sei sicura che non siano false?»
Lei sostenne di averle ottenute in dogana da una fonte attendibile. E proprio in quell’istante arrivò una telefonata. Pertev disse a Efil:
«Domani sera alle dieci. Prepara tutto.»
Poi Efil capì che doveva andarsene. Si diresse verso l’auto, impartendo istruzioni al personale di sicurezza e ai collaboratori. Annotarono tutto. Il crepuscolo incombeva. Mentre usciva dal cancello, vide entrare alcuni uomini di colore, con cui la sicurezza sembrava in confidenza. “Vuoi vedere che Pertev stia architettando un’altra performance a mia insaputa?” si chiese. Proprio allora il telefono squillò: era Pertev, dalla terrazza:
«Guarda in giardino. Le tue teste sono finte.»
E con uno scatto le buttò fuori dal balcone. Efil rimase impietrita: avrebbe voluto recuperarle, protestare… Ma lui, secco:
«Non voglio sentir ragioni. Vai a occuparti di Pompei.»
E chiuse la chiamata. Efil non ebbe la forza di tornare indietro. Era sul punto di scoppiare in lacrime, come se una ruspa le fosse passata sopra il petto.
PERTEV
Pertev e suo padre, sorseggiando caffè, si trovavano nell’ufficio del figlio di mezzo della famiglia, con vista sul Bosforo. Pertev commentò la partenza del fratello maggiore per Vienna, intenzionato a reclutare un direttore d’orchestra per una nuova filarmonica. Secondo lui, sarebbe bastato assumere un consulente artistico, incaricato di girare il mondo alla ricerca di un maestro, mentre il fratello avrebbe potuto starsene comodamente seduto in ufficio.
Il padre lo criticò:
«Intendi dire qualcuno in gamba come la tua Efil, vero?»
Pertev sorrise:
«Lei è il mio braccio destro, abbiamo solo un rapporto professionale. Non valichiamo la linea…»
Il padre si fece serio:
«Che insinuazioni sono queste?»
«Voglio dire che non è la donna con cui passerò la vecchiaia in una casetta sul lago.»
Il padre s’infuriò:
«Se solo sapessi quello che la gente dice di te… Mi sono giunte voci anche nella mia casa sul lago! Non hai il diritto di farmi vergognare!»
«Papà, i tempi sono cambiati. Ormai nessuno ha più senso del pudore. E io sto forse aprendo una nuova corrente artistica, liberando l’arte del nostro paese da vecchi schemi. È di questo che hanno paura: che la mia ricchezza e il mio potere mi permettano di indirizzare la scena artistica verso… be’, chiamiamola libertà! E se alla fine non fosse neppure arte? Diranno che con le mie performance assurde sto disturbando lo spirito di mio nonno in quella villa…»
Il padre replicò:
«Sono forse i tuoi amici storici dell’arte a mettermi in guardia? Come Musa?»
Gli occhi dell’uomo si fecero grandi: come faceva Pertev a sapere di un loro colloquio?
«Anche mio fratello maggiore adorava Musa, così eloquente. Ma perché è così radicato nella nostra famiglia?»
Il genitore arrossì:
«È andata così. Tuo nonno amava sostenere i bambini orfani. Musa era uno di loro e ha avuto un posto speciale nel suo cuore. Per questo non siamo mai riusciti a staccarcene.»
Pertev non si scompose:
«Ho saputo che Musa sta scrivendo un libro sulla nostra collezione di famiglia, compresa la mia. Forse è un po’ all’antica, ma… tutto è iniziato da te, no? Quando hai commissionato quel dipinto a un artista straniero, e poi è passato a me. Ho sempre cercato di potenziare i tuoi gusti in fatto d’arte, papà. Se tu non riesci a stare al passo coi tempi, ti consiglio di farti da parte e lasciar fare a me.»
Il padre, rosso di rabbia:
«Allora chiudo il museo!»
Pertev, con un sorrisetto:
«Vediamo come la prende mio fratello.»
«Allora prendi tu il comando dell’azienda, se credi di saperne così tanto!»
Pertev continuava a restare calmo:
«Aspetto il mio turno. Prima, però, vorrei organizzare una grande mostra nel museo, prima che tu decida di serrarlo. Parlando con te, a volte, mi si schiariscono le idee. Nonostante tu mi abbia segnato con qualche trauma, se oggi sono Pertev è un po’ anche merito tuo.»
Il padre, impietrito, disse:
«I traumi se li crea ognuno da sé…»
Poi si girò verso la porta:
«Fa’ tornare subito tuo fratello da Vienna!»
Pertev, come se nulla fosse:
«Sai, quel tuo caro Musa sta scrivendo la storia di questa famiglia.»
Nessuno aggiunse parola. Pertev intanto visualizzava nella mente le opere che avrebbe esposto nella prossima mostra, certa di destare scalpore. Che la gente comune lo capisse o no, a lui importava solo che il messaggio arrivasse a chi di dovere. L’assistente avrebbe curato i dettagli pratici, mentre lui si sarebbe limitato a godersi il piacere della creazione.
Andò personalmente a recuperare il fratello a Vienna, cogliendo l’occasione per gustare un’ottima Wiener Schnitzel. Parlarono di cose banali, visitarono un paio di musei. Pertev, calcolando i limiti oltre i quali spingersi con la sua futura mostra, si rese conto che sarebbe stata forte anche per uno scenario come Vienna. Poi volarono entrambi a Istanbul con l’aereo privato. Il fratello, troppo frenetico, fissò subito una prova generale dell’orchestra. Pertev lo seguì: mentre ascoltava le prime note, la mente vagava in un mondo tutto suo. Il padre gli si avvicinò, ringraziandolo di aver convinto il fratello a rientrare e di averlo avvertito del libro di Musa. Pertev lo conquistò con una sola frase:
«A come risolvere il problema del libro, ci penso io.»
I figli delle famiglie ricche come la sua imparano prima di tutto a “gestire l’equilibrio”: quando parlare, con chi e in che modo. La loro vita è una partita a scacchi. Non conta solo prevedere la propria mossa successiva, ma plasmare anche quelle degli altri. Pertev, sin da bambino, aveva sempre voluto stupire la gente con qualcosa di inaspettato, evitando di cadere in banalità. A volte, persino la scelta di non studiare Belle Arti lo aveva stimolato a impegnarsi di più. Avvertiva in sé un potere crescente, come se stringesse il mondo tra le dita.
La performance “Pompei” era ormai prossima. Efil, dal giorno in cui lui le aveva lanciato in giardino quelle teste ritenute false, era di pessimo umore. Sapeva che, se l’evento fosse andato male, Pertev avrebbe potuto “tagliarla fuori” come un ramo secco, pur definendola il suo “braccio destro”. Per questo, lei prese un calmante. E Pertev, di suo, aveva ordinato di versare un pizzico di sostanze nei bicchieri degli spettatori, per mantenerli disinibiti e, se necessario, somministrare loro un drink finale che annebbiasse il ricordo di quella serata.
Radunati gli invitati nella stanza segreta, Efil spiegò le regole: avrebbero potuto uscire solo in uno specifico momento, se avessero voluto. Ma Pertev protestò: tutti avevano giurato di resistere fino alla fine, e di non rivelare nulla a nessuno. Efil controllò la sua microcamera, che inviava le immagini a un computer in un altro paese, di un suo amico a New York. Non voleva rischiare di perdere una performance irripetibile.
Tra gli ospiti, c’era anche Musa, che si occupava di Storia dell’Arte. Era lusingato dall’invito, ma anche impaurito: il padre di Pertev, saputo del libro, lo aveva coperto di insulti. Pertev lo tranquillizzò, porgendogli le scuse a nome del padre, un uomo dal gusto artistico limitato. Musa, rasserenato, si concesse un sorso di liquore, poi un altro ancora.
«Zio Musa, volevo ringraziarla anche perché, se non mi avesse mostrato quel famoso quadro, io non avrei mai affrontato il mio trauma.»
Musa tacque. Anni addietro aveva volutamente provocato il padre di Pertev, facendo sì che il ragazzo scoprisse la verità. E adesso Pertev stava rivoluzionando il panorama artistico del paese. Colto dal rimorso, Musa fece un altro sorso e si rilassò.
Efil annunciò l’inizio della performance, ammonendo che ciò che si sarebbe visto lì doveva rimanere lì. Entrarono due cani in una stanza esagonale. Le porte si chiusero, l’atmosfera era fioca. I cani cominciarono a mordersi dolcemente le orecchie, avvicinandosi l’uno all’altro. Erano stati sedati con un farmaco che ne stimolava l’accoppiamento. In breve, iniziarono a congiungersi. Pertev, emozionato, scambiò uno sguardo con Musa, che si aggrappò al bastone. Efil invece non era affatto turbata: aveva già visto qualcosa di simile.
Ma la parte più scioccante doveva ancora arrivare. Mentre i cani copulavano, finirono in una piccola cella di vetro, proprio al centro della stanza; le luci soffuse impedivano di distinguere i dettagli. Si sentivano guaiti intermittenti, e l’esemplare sopra sembrava sudare, accelerando il ritmo. D’un tratto, un coperchio di cristallo calò dall’alto, sigillando tutto. Vennero immesse vampate di azoto liquido, che in pochi istanti li congelarono. L’ultimo lamento rimbombò nella stanza, poi si udì un silenzio raggelante.
Pertev, girandosi verso Musa, disse con tranquillità:
«Ecco, l’orgasmo di Pompei reso immortale.»
Efil, vedendo i due cani immobilizzati come statue, ebbe un tuffo al cuore. Musa si portò una mano al petto. In quel momento, i suoi occhi persero luce. Il giorno dopo, sarebbe stato rinvenuto privo di vita nel suo studio, e il mondo artistico avrebbe pianto amaramente: “Aveva ancora tanto da scrivere, tanto da insegnare…”
Tutti i diritti appartengono all’autrice Evrim Ozsoy. È vietata qualsiasi citazione.
Progetto di una serie in sette episodi: **Il Dio dell’Arte**.
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