ARTEMIS
La cucina era impregnata dell’odore delle erbe aromatiche. Artemis stava sperimentando nuove ricette salutari trovate su internet, decisa a concentrarsi su una dieta prevalentemente verde. Era determinata a limitare un po’ l’appetito e a ridurre i pasti a due al giorno, perché spendeva tutti i suoi soldi per il cibo. Tre pasti, più frutta, frutta secca e le solite pause tè-caffè prosciugavano in un lampo i suoi contanti. Meglio cucinare in casa e, se fosse uscita, portarsi dietro un panino. Istanbul, ultimamente, era carissima: con i soldi del pranzo per due persone, ormai riuscivi a malapena a bere un caffè da sola. Studiava arte, ma come ricavarne un guadagno concreto?
Accese il computer: aveva ricevuto un invito per un colloquio in una galleria d’arte. Ne fu felicissima. Certo, di questi tempi nessuno garantiva stipendio o contributi, ma, se fosse piaciuta, sarebbe potuta rimanere e, soprattutto, avrebbe imparato tantissimo. Rimpiangeva di non aver mai potuto seguire le lezioni di Musa. Lì ebbe un lampo di memoria: la pen drive. Aprì i file e, intanto, sgranocchiava asparagi. Musa aveva registrato tutte le sue lezioni. C’erano tantissime cartelle. Dando un’occhiata ai propri documenti, Artemis si rese conto di aver già fatto un gran lavoro. Poi aprì un’altra cartella, con foto e documenti, fino a scovare un file di Word: il libro in cui Musa aveva narrato la propria vita. Fu come se spalancasse la porta di una tomba. Tuttavia, la curiosità la vinse, e iniziò a leggere con trepidazione. La prosa di Musa la avvolse: aveva una forza travolgente, come se lui fosse seduto sul divano di velluto rosso di casa sua a raccontarle le vicende della sua nascita. Più andava avanti, più Artemis si meravigliava: finalmente scopriva la vera identità di Musa, i retroscena del mondo dell’arte e il ruolo di Pertev, che si sforzava di avviare una nuova corrente.
LISSA
Lissa, dal canto suo, si era tuffata senza riserve nel lavoro. Era arrivato lo “specialista” di cui il padrone parlava: un uomo imponente, che in un batter d’occhio aveva fatto licenziare tre operai. Il padrone strizzava l’occhio a Lissa, come a suggerirle che il matrimonio era vicino. Ma per fortuna quell’omone si comportava come una macchina, senza degnare Lissa o chiunque altro di uno sguardo. Durante l’orario lavorativo sembrava avere un’energia inesauribile, e nella pausa pranzo si inghiottiva un’intera pagnotta in appena due minuti, per poi rimettersi al lavoro senza aspettare che finisse la mezz’ora di sosta. Lissa si sentiva sempre più oppressa. Aveva bisogno che Akuji ottenesse un permesso regolare, che loro due si sposassero e trovassero un altro impiego… perché con quell’uomo non avrebbe mai potuto sposarsi, e non poteva neppure permettersi di restare senza lavoro.
«Non pensarci così a fondo» le disse il figlio del padrone, coi capelli rossi, accennando con lo sguardo all’omone: «Va’ a innamorarti di lui, visto che è una macchina perfetta.» Lissa non sorrise. Il ragazzo rosso indicò l’operaio forzuto: «Tuo marito è fortunato.» Lissa abbassò il viso.
Intanto, Akuji era combattuto fra il recarsi subito dalla polizia e raccontare tutto, oppure starsene in quella villa come se non avesse visto nulla. Aveva già messo piede nel palazzo e persino filmato col telefono il trasporto di un cadavere. Se fosse rimasto, sarebbe comunque rimasto un clandestino; se fosse andato alla polizia, anche collaborando, non era detto che ciò lo rendesse regolare. Al massimo, avrebbe ottenuto l’indulgenza di qualche giorno. Dopo pranzo, gli dissero che in villa si era liberata una stanza e che lui avrebbe potuto occuparsene, perché ormai la sicurezza si fidava di lui. Akuji si mise dunque all’opera con impegno, imballò i mobili e li trasferì in magazzino insieme ad altri lavoratori di colore.
Sentì due di loro commentare, ridendo tra loro: «Se sapessi cosa succede qui dentro…» Poi, vedendo Akuji, tornarono seri. Cercò di capire meglio, ma loro non si sbottonarono. Lavoravano lì da un mesetto, anch’essi clandestini, e sgattaiolavano all’alba per non farsi beccare. Già guadagnavano bene, ma nessuno di loro era lì da più tempo. Akuji, memore delle “teste amazzoniche” trovate in giardino, si chiese se ci fossero altri reperti illegali nascosti da qualche parte. Notò anche telecamere in certe stanze.
Le guardie lo condussero in un’altra stanza, dove un uomo scoprì con incredulità alcuni contenitori di vetro con embrioni sospesi:
«Oh cielo… Il padrone è forse un medico?»
La guardia non fece una piega: «Qualcosa di simile. Tu però non far domande: spolvera i tubi e non parlare con nessuno, ok?»
Akuji sussultò. Chi aveva detto che i clandestini potessero fare qualunque lavoro? Doveva pulire quei barattoli con embrioni di ogni specie, umana e non. Ma che razza di collezione era quella? Non poteva scattare foto: le telecamere, di certo, lo avrebbero beccato. E non era nemmeno sicuro che alla polizia sarebbe interessato un dettaglio simile. Così, mentre toglieva la polvere, si sentì come se quegli embrioni lo implorassero: «Salvaci.»
All’improvviso la porta si aprì. Per via del buio, Akuji non vide subito chi fosse. Una voce chiese:
«Cosa stai mormorando?»
«Scusa, non mi ero accorto di parlare a voce alta.»
L’uomo avanzò di un passo, stavolta nella penombra, e Akuji ne distinse i tratti: un tipo biondo, alto, con gli occhi azzurri, estremamente affascinante, l’esatto opposto di lui.
«Una ninna nanna…» spiegò Akuji, «in lingua del mio villaggio.»
L’uomo chiuse la porta, curioso: voleva saperne di più. Akuji si irrigidì, temendo che la guardia potesse scoprire che stava parlando con uno sconosciuto. Ma sapeva come rendersi simpatico a tutti:
«Scusa, io non parlo bene il turco…» fece per andarsene, ma il biondo lo fermò:
«Non temere, qui sei al sicuro.»
Parlarono un po’. Akuji, con un lampo di gioia negli occhi, raccontò del suo villaggio in Africa. Il biondo gli chiese se sapesse ballare o suonare qualche strumento. Akuji non si tirò indietro: avrebbe potuto provare tutto, tanto la sua indole era quella di non chiudere alcuna porta. L’uomo lo rassicurò:
«Sono oggetti artigianali, niente di vero. Non agitarti.»
Akuji tirò un sospiro di sollievo. Di lì a poco, ricomparve la sicurezza. Si rivolse con molto rispetto al biondo, parlandogli a bassa voce. Sembrava ci fosse un nuovo incarico per Akuji.
EFIL
Il pandemonio scoppiato nella serata in onore di Musa fu presto dimenticato. Ora tutti i giornali parlavano della nuova mostra in arrivo. Efil ce l’aveva ancora con Pertev, ma, in compenso, essendo lei la curatrice ufficiale, stava ricevendo un’attenzione immensa — ed era contenta di accaparrarsi i riflettori. Tra interviste, preparazione della mostra e allestimenti, si era persino scordata della questione di congelare i propri ovuli. In quel periodo non poteva permettersi malanni, né tantomeno relazioni sentimentali, perché era totalmente focalizzata sul progetto di Pertev, destinato a far scalpore.
La mostra, intitolata “I nostri sogni e i nostri piaceri,” si sarebbe inaugurata quella sera. Efil passò dal parrucchiere, scelse l’abito e corse nell’ufficio di Pertev. Ma lui non c’era. Alcune opere la turbavano: non riteneva il pubblico ancora pronto per foto di una donna che si accoppia con una scimmia, o per il video di un uomo che si masturba fino a morire, o ancora per disegni di omosessuali morti per il troppo piacere, appesi a testa in giù. Aveva provato più volte a parlarne con Pertev, ma lui risultava inafferrabile. Spesso Efil si domandava se fosse davvero un problema apparire come curatrice di contenuti così estremi. Non li aveva neppure visti tutti. Alcune opere, acquistate da Pertev di recente, erano entrate nel paese col suo jet privato. In caso di scandalo, la carriera di Efil sarebbe potuta finire lì. In quel caso, se fosse andata male, avrebbe fatto armi e bagagli e sarebbe volata a New York, chiudendo ogni rapporto con Pertev. A volte ringraziava di non essersi sposata o di non aver avuto figli: certe scelte erano più semplici così.
All’inaugurazione si presentò tutta l’alta società, insieme ai principali critici d’arte. Tutti sembravano a bocca spalancata. Efil, con un sorriso, conversava coi proprietari della galleria, pur tenendo d’occhio le reazioni della gente. Fu allora che notò Artemis. La ragazza si aggirava scattando foto alle opere, con un’aria quasi di sgomento. Efil provò la stessa sensazione di sprofondare in un pozzo senza fondo. Questa mostra avrebbe davvero segnato una svolta per l’arte nel paese.
Si avvicinò a lei, la abbracciò calorosamente. Chiacchierarono un attimo. Artemis disse che avrebbe avuto un colloquio in un’altra galleria. Efil si offrì di presentarla subito al proprietario. Poi prese a parlarle della collezione di Pertev, ma Artemis reagì in modo inaspettato:
«Non so se definirla arte…»
Efil, con un sorrisetto ironico, replicò:
«È la mostra più audace, profonda e di qualità che tu possa vedere in questo momento nel mondo.»
Artemis rispose, con uno sguardo serio:
«Non scorgo l’anima di chi ha creato queste opere, ma solo quella di chi le ha comprate… e mi fa paura.»
Efil inspirò a fondo. Aveva la netta impressione che Artemis, probabilmente, sapesse cosa accadeva dietro le quinte e capisse quanto fosse opportunista Efil.
«Buona visita,» concluse Efil, già irrigidita dall’orgoglio.
Artemis le prese la mano: Efil rimase sorpresa. Poi la ragazza domandò:
«Hai letto il libro di Musa?»
Efil, scuotendo il capo, disse di aver dato disposizioni all’editore di bloccarne la pubblicazione e che, comunque, di quelle cose si stava occupando il padre di Pertev.
«Ah, suo fratello allora…» commentò Artemis.
Efil non capì.
«Nel libro spiega tutto. Se vuoi, te lo presto.»
Proprio in quell’istante spuntò Pertev, col solito profumo costoso addosso.
«Vorrei leggerlo anch’io,» disse ridendo.
PERTEV
In una stanza chiusa della mostra, Akuji danzava e intonava ninna nanne al ritmo di una musica africana. Era un’idea del biondo: al visitatore era lasciato il compito di immaginare, senza poterlo vedere concretamente. Akuji aveva preso altri mille dollari. Avrebbe potuto ballare tutta la notte, tanto non si sarebbe visto nulla da fuori, solo qualche ombra e il suono della sua voce, a tratti simile a un ululato o a un pianto.
Lissa entrò, riconoscendo Akuji dal canto. Corse verso quella “scatola,” chiamandolo, ma lui continuò la ninna nanna. Un addetto le offrì un drink, ma lei scelse una cola. Akuji aveva lasciato un biglietto per lei vicino alla porta, contenente altri mille dollari. Lissa passeggiò per la mostra, intimorita, specie da un’opera che mostrava afrodiscendenti raggomitolati come embrioni in fosse simili a tombe.
Pertev fu l’ultimo a presentarsi all’evento. Il fratello era già lì da ore, aveva salutato tutti e rivelato perfino alcuni retroscena dell’azienda:
«Quel pazzo di Pertev ha fatto sì che il nostro direttore marketing si mettesse i piercing ai capezzoli…!»
Nessuno rise. Sapevano che, in quell’azienda, chiunque doveva adeguarsi agli “hobby” del capo. Era il concetto di “famiglia”: lealtà totale. Nel frattempo, Pertev non smetteva di guardare il telefono. Girando per la mostra, si fermò davanti alla scatola di Akuji, trovando la performance molto affascinante. Lissa, dietro di lui, sorrise. Pertev era soddisfatto di vedere lì così tanta gente di diversa estrazione. E l’idea di quella “scatola” gli pareva piuttosto creativa. Per un attimo pensò di farla dipingere in stile africano, ma scartò l’idea: forse sarebbe risultata banale.
Accettò i complimenti dei presenti, mentre nella mente progettava la prossima performance da organizzare nella villa. Era stanco, sempre in fermento artistico — forse più di un vero artista. Dopotutto, non aveva studiato Belle Arti, e ne era contento: altrimenti si sarebbe fossilizzato in un’unica disciplina, mentre così poteva esplorare di tutto. Aveva soldi e persone talentuose intorno, per cui la sua creatività si sentiva alimentata ogni giorno. In particolare dal biondo. Notò Efil, ma non ne aveva alcuna voglia di parlarci. Voleva liberarsi di lei, magari con un bel viaggio a New York di sola andata. Se saltava fuori il discorso della microcamera nella stanza segreta, sarebbe stata la sua rovina. Non era arrabbiato, ma in villa c’era chi stava per far saltare i nervi a molti.
Origliò qualcosa sul “libro di Musa” e si fece attento. Nel computer che suo padre aveva preso dalla casa di Musa non c’era traccia del file con i segreti di famiglia, poiché Artemis non aveva fatto un “Copia e incolla,” ma un “Taglia e incolla.” Pertev disse ad Artemis che era interessato a leggere quel libro. Efil rise:
«Il libro che Musa non è mai riuscito a pubblicare?»
«Ho deciso: lo voglio leggere» rispose lui, guardando Artemis. «Portamelo domani nel mio ufficio.»
Efil divenne rigida. Come avrebbe potuto controllare quella ragazza? Forse voleva prendere il suo posto? Ancora una volta, Pertev aveva scoperto come attirare l’attenzione del padre (o forse di tutti) col suo asso nella manica: il libro di Musa.
Tutti i diritti appartengono all’autrice Evrim Ozsoy. È vietata qualsiasi citazione.
Progetto di una serie in sette episodi: "Il Dio dell’Arte"
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