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Il Dio dell’Arte-4

 ARTEMIS 

Negli anni ’30, Istanbul non era ancora soffocata dal cemento. Il nonno di Pertev, intravedendo il futuro (o forse credendo di poterlo modellare a proprio vantaggio), fondò in città un’azienda che vendeva materiali da costruzione. Nei primi anni della Repubblica, avevano il sostegno dello Stato. Importare dall’estero era costosissimo, dunque serviva una produzione propria. Così individuarono in Anatolia il posto ideale dove aprire una cava di marmo. Scavarono la terra, scavarono le montagne, gli alberi circostanti dapprima sbiancarono, poi morirono e vennero abbattuti; i contadini non riuscivano più a respirare e alcuni abbandonarono i loro villaggi. Scomparvero anche le piogge, perché il nonno, nella sua brama di estrarre marmo, aveva reso la terra arida. Tuttavia, si considerava un uomo generoso: accolse uno a uno i contadini, offrendo loro lavoro. Così riuscì a trasformare quel suolo secco in una meta attraente per chi cercava un’occupazione. I bambini più svegli del villaggio venivano mandati a studiare a Istanbul, per poi essere assunti in azienda. In questo modo il nonno saldava il debito che sentiva verso la terra dov’era nato suo padre. Del resto, a chi avrebbe dovuto dare fiducia se non alla gente del proprio villaggio? Anche le ragazze più capaci talvolta entravano come domestiche nella villa di famiglia.  

Il padre e la madre di Fatma fecero di tutto per mandare la figlia nella residenza del nonno. Lui, infatti, corrispondeva alle famiglie un certo compenso per ogni giovane di cui si faceva carico. Un intermediario, inizialmente contrario perché Fatma era molto bella, fu alla fine convinto con una quota dei risparmi che i genitori di lei avevano messo da parte per il funerale del padre. Così Fatma, giunta a Istanbul, si ritrovò nel grande palazzo. L’intermediario sparì; una lavandaia la tenne relegata a lungo nel retro del giardino, sapendo che se l’avessero vista, molti si sarebbero invaghiti di lei.  

Una mattina di primavera, Fatma entrò nella stanza padronale per cambiare le lenzuola. Sfilò quelle sporche e vi pose quelle fresche di bucato. Mentre usciva col mucchio di biancheria tra le braccia, si imbatté nel nonno, che stava entrando. I loro sguardi s’incrociarono. Per la prima volta, lui sentì un brivido di felicità che non aveva mai provato in vita sua. Come se il sangue ricominciasse a pulsare fin sulla punta delle dita.  

«Chi sei?» chiese.  

«Sono… la lavandaia,» rispose Fatma, spaventata.  

«E come ti chiami?»  

«Fatma.»  

«Fatma…» ripeté lui sottovoce.  

Quel giorno, dopo colazione, il nonno doveva andare a cavalcare con Seyis Efe. Indossò stivali in pelle, prese la frusta, montò a cavallo, tirò le redini sotto gli occhi di tutti i domestici; quel giorno era diverso, voleva che Fatma lo vedesse in tutta la sua mascolinità e fierezza: la passeggiata al rientro, il caffè in giardino, il sonnellino… Ormai era cambiato: decise di farle proseguire gli studi, e con lei iscrisse a scuola anche qualche altra ragazza che faceva la lavandaia. Spesso dialogava con Seyis Efe di cavalli, di lavoro, di amore. Seyis Efe era celibe. Il nonno pensò che Fatma potesse essere adatta a lui, ma non lo disse ad alta voce.  

Capitò di incontrare Fatma nella stalla; lei non capì cosa stesse succedendo, ma il nonno si sentì come se avesse inghiottito il mondo intero. Si perse in quell’istante. Fatma non disse nulla. Passarono i giorni e il nonno continuò a “ritrovare il mondo” insieme a lei, colmandola di promesse. Alla fine Fatma sposò Seyis Efe. Come da tradizione, quest’ultimo baciò la mano del padrone e amico che, di fatto, lo benediceva. Lui, Seyis Efe, divenne l’uomo più felice del palazzo. Ormai tutti sapevano che era il braccio destro del padrone, colui che l’aveva unito alla ragazza più bella del mondo, garantendogli un futuro sereno.  

Un giorno, però, durante una battuta di caccia al cinghiale con il nonno, Seyis Efe fu colpito per sbaglio da un proiettile. Era in mezzo a tante persone, ma a beccarlo fu quella pallottola vagante. Fatma, sconvolta dalla morte del marito, si ritrovò vedova, col figlio Musa di appena cinque anni. Il nonno continuò a visitare spesso Fatma, promettendole che avrebbe fatto studiare Musa, assicurandole che non l’avrebbe mai trattato in modo diverso dal proprio figlio appena nato. La padrona di casa tentò in ogni modo di rimandare Fatma al paese o altrove, ma invano: il nonno non voleva perderla di vista. Fatma cucinava per lui, con quella sua mano saporita. Nel frattempo, tutti i lavori domestici e le sofferenze che aveva attraversato le stavano già incanutendo i capelli.  

A sei anni, Musa fu mandato in un collegio. Fatma tornò alla villa in lacrime, ma nessuno la consolò, come se a tutti fosse stato tolto un peso. Più lei taceva, più si sentiva schiacciata. D’estate Musa tornava dalla madre, ma con il passare del tempo si iscrisse a corsi estivi, fece campi studio all’estero… e alla fine partì per la Francia. In quell’ennesimo distacco, il cuore di Fatma non resse. Morì in un giorno di pioggia, con la nostalgia del figlio lontano. Il nonno non presenziò al funerale, temeva un’emozione troppo forte: se fosse stato male, l’azienda avrebbe rischiato di crollare.  

Durante gli studi, a Musa non mancò nulla. Da Parigi chiamava il nonno, che gli pagava ogni spesa. Non era il padre eroe e affascinante come Seyis Efe, ma nel cuore di Musa, il vecchio rimaneva una specie di secondo padre. Fatma, d’altronde, era stata la donna semplice, infaticabile e sfortunata di quel tempo. Musa non si pentì mai di essere nato: era intelligente e sapeva di poter avere successo. Tornato in patria, trovò ogni porta aperta. Non si allontanò mai da quella famiglia dove sua madre aveva lavorato e sofferto. Il figlio del nonno lo invidiava, ma i nipoti, tranne Pertev, gli volevano bene. Parlare di arte con Musa irritava Pertev, che detestava le sue goffe frasi in francese zoppicante e le sue narrazioni un po’ inventate. Pertev addebitava alla propria infanzia traumatica l’antipatia che provava, senza badare all’età avanzata di Musa.  

Quando Musa morì, fu il fratello di mezzo a gettare per primo una manciata di terra sulla bara, poi il padre, poi il mondo dell’arte. Artemis piangeva in disparte, tormentata dal rimorso: l’ultima loro telefonata era stata piena di collera e, secondo lei, Musa aveva avuto un infarto a causa di quell’ira. Si sentiva colpevole. Corse alla fontanella del cimitero cercando di vomitare, ma non aveva nulla nello stomaco. Bevve un sorso d’acqua; Efil comparve e l’aiutò a bagnarsi il viso, forse per farla rinsavire. Artemis quasi si aggrappò a lei in lacrime, ma la verità era che anche Efil aveva una parte, seppur indiretta, in quella vicenda.  

«Mi odiava quando è morto,» mormorò Artemis.  

«Perché?» chiese Efil, asciugandole la fronte con un fazzoletto.  

«Per via della biografia… Glielo avevo accennato…»  

Efil la scosse con dolcezza:  

«Non dire sciocchezze! L’argomento l’aveva tirato fuori lui. Probabilmente l’editore si è tirato indietro e se l’è presa con te. Un vecchio, solo e testardo… Ma non parliamone qui.»  

Artemis stava per urlare: “L’ho ucciso io!” Continuava a singhiozzare. I parenti, scambiandola per una congiunta, le rivolgevano le condoglianze, e Efil evitò di smentirli. In fondo, un abbraccio le avrebbe fatto bene. Al termine della cerimonia funebre, raggiunsero la casa di Musa con alcuni dei suoi allievi più affezionati. Efil, notando la coincidenza, commentò:  

«Dicono che chi muore vicino al proprio compleanno, in fondo… ecco, sembra quasi un destino segnato.»  

Poi trascinò Artemis in bagno, mentre Maya si era già chiusa in camera con i propri bagagli. Arrivò anche il padre di Pertev, ma lui non si fece vedere. L’assistente di quest’ultimo pagò a Maya l’ultimo stipendio e una piccola somma per aiutarla finché non avesse trovato altro lavoro.  

«Che ne sarà del libro?» domandò Artemis.  

Efil si avvicinò a lei:  

«Guarda che il padre di Pertev e Musa erano praticamente cresciuti insieme. Lascialo risolvere a loro. Non immischiarti.»  

Poi compì un gesto generoso: si fece dare dall’assistente una somma cospicua per aiutare Artemis. Lei quasi scoppiò in lacrime e fece per abbracciarla, poi pianse di nuovo. Efil salutò Maya, inspirò l’odore ammuffito della vecchia biblioteca per l’ultima volta e chiamò un taxi per far tornare Artemis a casa. Quella busta di denaro corrispondeva a sei mesi di affitto e spese. Era più di quanto Musa le avesse mai dato. “Che persone generose,” pensò la ragazza. E adesso? Forse avrebbe dovuto cercare un posto come cameriera nel bar del quartiere o un negozio di tessuti per la casa.

LISSA 

Lissa se ne stava accovacciata alla finestra seminterrata della sua stanza. Poteva vedere solo i piedi dei passanti in strada. A un tratto, un’auto si fermò proprio davanti al vetro, e i gas di scarico penetrarono nella stanza, obbligandola a chiudere in fretta. Lissa scoppiò a piangere. Un’amica di casa le si avvicinò:  

«Basta piangere! Un uomo va, un altro arriva.»  

«Akuji non è “un uomo qualunque”…» ribatté Lissa.  

La donna sorrise con sarcasmo:  

«Ne ho visti tanti di “uomini”, e spesso erano tutt’altro che tali. Non ti fidare troppo di lui: magari ha altri scopi.»  

Lissa non rispose, si limitò ad aprire le mani in silenzio, in un atto di preghiera muta. L’amica ridacchiò:  

«Se ci tieni tanto, perché non vai a pregare in chiesa?»  

Lissa si girò stizzita:  

«Prego come e dove voglio, sono libera.»  

Quando era appena arrivata a Istanbul, Lissa aveva frequentato corsi gratuiti di inglese nelle chiese, e da allora le era rimasta l’abitudine di pregarvi. In fondo, per lei, Dio era uno solo. Non importava se fosse quella che i musulmani invocavano o quello dei cristiani; quel che contava era la bontà del cuore.  

Il messaggio inviato ad Akuji risultava non consegnato. Forse la polizia l’aveva già preso ed espulso, o forse aveva il telefono scarico. In realtà, Akuji stava camminando fuori città, zoppicando, diretto verso la grande tenuta. Non aveva altro posto dove andare e lì la polizia non avrebbe di certo fatto irruzione. Con la guardia, la prima volta, aveva mostrato un finto permesso di lavoro, e oramai sperava di poterci restare almeno una settimana. Avrebbe approfittato di una presa di corrente per caricare il cellulare e poi avrebbe avvisato Lissa. Stava calando la sera.  


Alla villa c’erano dei lavori da fare, specialmente intorno alle pertinenze. Si scavava il terreno. Akuji decise di lavorare di notte. Appena uscì con la pala in mano, vide a terra una piccola testa umana. Inorridì, domandandosi cosa fosse. La toccò col piede, scorgendone un’altra poco oltre, accanto a una scatola. All’improvviso, una luce gli abbagliò gli occhi. Un giovane si avvicinò:  

«Ehi, cosa stai facendo? Quella roba l’hai portata tu? O forse…»  

Akuji riconobbe la voce dell’agente che la notte precedente lo aveva inseguito. Cercò di scappare, ma il poliziotto, parlando sottovoce, lo incalzava:  

«Fermo, non urlare!»  

Akuji si diresse verso i muri, ma con la caviglia malandata non riusciva a saltarli. Il poliziotto continuava, sempre a bassa voce:  

«Corri, corri finché vuoi, tanto ti prendo!»  

Alla fine Akuji inciampò e cadde; l’agente gli piombò addosso, tappandogli la bocca:  

«Non gridare, Akuji!»  

Sentendosi chiamare per nome da chi lo aveva braccato fino a lì, la prima reazione di Akuji fu quasi di volerlo uccidere, ma ricordò Lissa: finire in prigione significava addio a lei, e non voleva diventare un assassino. Il giovane poliziotto lo immobilizzò e gli spiegò che, se non avesse collaborato, lo avrebbe rispedito nel suo paese. Akuji, tremando, si arrese.  

Sedettero contro il muro con in mezzo quella scatola piena di teste amazzoniche. Il poliziotto:  

«Dimmi la verità: sei stato tu a portarle fin qui?»  

«No, lo giuro, stavo solo scavando dove mi dicevano di scavare. Ho trovato queste… Per favore, non arrestarmi, farò qualunque cosa.»  

L’uomo gli rivelò di star lavorando sotto copertura per un caso di contrabbando di reperti storici. Avrebbe chiesto ad Akuji di riferirgli tutto ciò che avveniva in quella villa, chiunque entrasse o uscisse. In cambio, avrebbe finto di non sapere che Akuji era un irregolare. Stabilirono un piano. Akuji scoppiò in lacrime, il poliziotto lo calmò:  

«Se vuoi rivedere Lissa, devi fare come dico io.»  

Akuji non poteva credere a quanto fossero onniscienti e potenti: la polizia conosceva perfino il nome della sua ragazza. L’agente gli chiese dei quadri, delle opere d’arte, dei visitatori della villa. Akuji ammise di non essere mai entrato, perché si nascondeva negli alloggi di servizio finché tutti non fossero andati via. Il poliziotto gli ordinò di fotografare le opere se mai fosse riuscito a entrare e anche chiunque si presentasse. Akuji, preso dal terrore, iniziò a piangere di nuovo, dicendo che non ce l’avrebbe mai fatta. Il poliziotto gli intimò di non provare a fuggire, perché “l’occhio della polizia era ovunque.” Poi sparì. Akuji, secondo le istruzioni, seppellì sotto un albero le teste amazzoniche e si ripromise di avvisare Lissa che era vivo.  

Verso la mezzanotte, infatti, Lissa ricevette il suo messaggio: Akuji stava bene, stava lavorando alla villa e l’avrebbe cercata appena le acque si fossero calmate. Le aveva mandato anche la geolocalizzazione, con un “Ti amo, Lissa” corredato di un cuoricino. Lei tirò un sospiro di sollievo: non era come gli altri uomini, Akuji era diverso, intelligente e mai offensivo. Finalmente poté dormire.  

Quella notte fu molto lunga per Akuji. In uno dei punti che aveva scavato, trovò delle ossa. Il guardiano gli spiegò che erano finte, in plastica, sepolte apposta per qualche installazione artistica. Akuji, però, non ci credette e nascose uno di quei frammenti nella giacca. Il suo nuovo compito era raccogliere prove. Durante una pausa, col cellulare scattò foto dalla dépendance verso una finestra illuminata della villa. Scorse due uomini che si abbracciavano, li registrò in video da lontano, si intravedevano solo le sagome. Avrebbe voluto inviare subito il tutto al poliziotto, ma non aveva il numero. Doveva aspettare che fosse lui a farsi vivo. Nervoso e agitato, bevve un’intera bottiglia d’acqua. Poi giunsero alcune auto, e Akuji si annotò le targhe. Non riuscì a vedere i passeggeri. Infine il giardiniere ordinò a un paio di lavoratori di riunirsi alla dépendance; Akuji mise il telefono a caricare. Non chiuse occhio.  

Dopo un po’, comparve la sicurezza e lo afferrò per un braccio: Akuji fu preso dal panico. Forse la polizia era venuta a prenderlo? Lo trascinarono alla villa. Spense la suoneria del telefono, avviò la videocamera e la infilò nella tasca del gilet, terrorizzato dall’idea di essere condotto a morte. Un corridoio, la scalinata… prima di entrare in una stanza, la guardia lo ammonì: non avrebbe dovuto riferire a nessuno ciò che vedeva, o avrebbero consegnato il suo falso permesso di lavoro alla polizia. Era un segreto risaputo, eppure adesso lo minacciavano.  

Nella stanza c’era Musa, con il bastone in mano. Immobile su una poltrona. La guardia spiegò ad Akuji che Musa aveva assunto qualche droga e andava subito riaccompagnato a casa, o i “padroni” avrebbero avuto guai. Akuji rimase interdetto guardando il professore, temendo di doverlo seppellire in giardino. La guardia precisò con pazienza che lo avrebbero portato in città in auto, promettendogli 1000 dollari. Akuji accettò e domandò di restare comunque nella dépendance fino alla fine della settimana. «Non hai un posto dove andare?» rispose la guardia. «No, ma non ci saranno problemi.» Alla fine, i due lo scortarono insieme a Musa in un appartamento in città, poi lo lasciarono lì.  

La mattina dopo, Lissa si recò al lavoro con un umore insolitamente buono. Il padrone la chiamò in disparte:  

«Cos’è questa storia che frequenti clandestini?»  

Lissa non rispose.  

«Devi sistemarti. Sta arrivando dal mio villaggio un nuovo operaio, un tipo corpulento, anche di bell’aspetto… se non vuoi perdere il permesso di soggiorno, direi che potresti sposarlo.»  

Lissa era sbigottita. Il padrone proseguì:  

«Queste donne si stanno di nuovo agitando per un possibile sciopero? Se ci sarà un’altra rivolta, voglio saperlo prima, altrimenti ti licenzio.»  

«Io non so nulla, sto solo lavorando,» mormorò Lissa. In realtà, lui non voleva perdere Lissa perché produceva quanto tre operaie, a metà del costo. Se dal villaggio fosse arrivato un uomo forte, in grado di reggere il carico di cinque lavoratori, ne avrebbe licenziati quattro. E poi, se Lissa avesse acquisito la cittadinanza, la polizia dell’immigrazione avrebbe smesso di ispezionarli di continuo. Lissa rimase zitta e riprese a cucire. Le altre donne la guardavano con diffidenza, come se fosse una spia. Ma Lissa non avrebbe mai accettato di sposarsi con uno sconosciuto. Era scappata dal suo paese proprio per evitare un matrimonio combinato. Lei sperava ancora di rivedere Akuji. Pregò che accadesse presto.

EFIL 

Efil, con le braccia cariche di scartoffie, si trovava nell’ufficio di Pertev per discutere a proposito di una mostra improvvisa. Di colpo, era spuntata l’idea di un nuovo evento. Lei aveva molti progetti in corso, era in fibrillazione. Pertev insisteva che tutto fosse pronto in una settimana. Efil obiettava che il programma del museo fosse già stabilito, ma lui replicò che si sarebbe potuto dedicare il piano più alto a una collezione personale per un solo mese. In realtà, Efil ne era anche contenta. Aveva un elenco interminabile di artisti da coinvolgere, e bastavano cinque giorni per far arrivare le opere. Pertev si complimentò con lei. Poi, con un sorriso, ricordò quanto gli fosse piaciuta la “performance di Pompei,” ma disse anche di sentirsi in colpa: per compensarla, voleva un altro tipo di performance, meno crudele. Insomma, lei avrebbe dovuto, in contemporanea, allestire la mostra, organizzare una nuova performance alla villa e, per giunta, congelare i propri ovuli.  

Pertev, vedendola agitata, cercò di rassicurarla: se voleva, poteva chiedere aiuto a un assistente. Efil rifiutò: «Non sono forse il tuo braccio destro?» Mentre lui le porgeva una pennetta USB. Incuriosita, Efil la collegò al portatile e scoprì una serie di video e file. Era chiaro che Pertev voleva da lei qualcosa di simile. Lei tentò di dirgli: «Ma eravamo abituati a scegliere la collezione insieme, no?» E lui, accennando che, durante i suoi viaggi in aereo privato, aveva già acquistato tutte le opere necessarie, ribatté che la sua unica incombenza era trovare qualche nuovo artista. I pezzi in deposito sarebbero arrivati in una sola notte, persino le didascalie erano pronte. Il nome di Efil sarebbe comunque apparso come curatrice, ma il resto era ormai deciso. L’unica altra faccenda da gestire era la performance più “umana” per gli ospiti speciali invitati alla villa.  

Efil uscì dall’ufficio col cuore gelato: se Pertev agiva da solo, senza avvisarla, che bisogno aveva più di lei? Cercava solo un marchio da apporre su quelle scelte fatte a sua insaputa? Voleva forse sbarazzarsi di lei? Efil non riusciva a capirne il vero obiettivo. E chi aveva scritto i testi della mostra, se non l’aveva fatto lei? Le pareva un tradimento. Indietro a chiedere spiegazioni o concentrarsi sulle performance? Avrebbe voluto un consiglio da qualcuno più saggio, ma non aveva nessuno intorno.

PERTEV

Quella sera, la performance era organizzata in onore di Musa, storico dell’arte e giornalista, di recente scomparso. Pertev si vestì con un elegante abito blu scuro cucito su misura in Italia, e si mise un paio di occhiali con montatura grigia. Il padre e il fratello sarebbero stati presenti, insieme a vari ricchi del paese, ai media e al mondo artistico, pronti a gustarsi lo spettacolo e a elogiare il suo gusto estetico nei giorni successivi. Una pubblicità perfetta per l’immagine della famiglia, ben più di qualsiasi iniziativa del fratello di mezzo. Parlare di arte, intrattenere gli ospiti era fonte di prestigio. Alle otto di sera, la villa del nonno era gremita. Il padre e il fratello si fecero avanti orgogliosi, facendogli i complimenti. Le bevande e gli stuzzichini erano impeccabili, i fotografi si contendevano ogni scatto.  

Il fratello era pure soddisfatto per aver invitato la sua piccola orchestra da camera, e da lontano sorseggiava champagne, accompagnando le note con il capo. Il padre si aggirava con aria pensierosa, sperando di assistere a un numero che omaggiasse il nonno defunto. Cinque studentesse di performance art fecero il loro ingresso al centro del salone, con le luci abbassate, iniziando una coreografia ibrida che evocava gatti e cani. Il padre di Pertev era turbato, mentre il fratello sbirciava l’orologio sperando finisse presto. Le performer si avvicinarono al pubblico, chinando le teste come animali in cerca di carezze. Gli spettatori, dapprima perplessi, iniziarono a interagire, accarezzandole come fossero cagnolini domestici.  

All’improvviso entrarono numerosi cani veri. Efil, impugnando il microfono, fece un discorso sull’importanza di adottare i randagi dal canile anziché abbandonarli. Il pubblico, intenerito, applaudì. Alcuni ricchi si sentirono in dovere di prendere subito un cane, per non dare un dispiacere ai padroni di casa. Era un perfetto esempio di arte abbinata a responsabilità sociale, e la comunità artistica si alzò in piedi per acclamare Efil. I fotografi corsero a immortalare i volti noti con il proprio cane appena “acquistato.” Il padre diede una pacca sulla spalla di Pertev, e il fratello gli strinse la mano.  

Proprio allora, però, le ragazze performer iniziarono a ululare. Era fuori copione. Efil le guardò. Quelle ragazze, in realtà, si erano organizzate per protestare: «Non si possono rinchiudere gli animali in casa!» urlavano, «li comprate e poi li buttate in strada!» Denunciavano il fatto che i cani finissero prigionieri fra quattro mura o fossero rimessi in libertà come se fossero oggetti. In pochi attimi distribuirono opuscoli ben stampati. Pertev lanciò uno sguardo interrogativo a Efil: quella non era la performance concordata.  




Tutti i diritti appartengono all’autrice Evrim Ozsoy. Vietata qualsiasi citazione.  

Progetto di una serie in sette episodi: "Il Dio dell’Arte"

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