ARTEMIS
Artemis era felice nella biblioteca di Musa. Stava digitalizzando i manoscritti del professore, e durante le pause sfogliava brani di vari libri d’arte. Su tavolo, Musa aveva lasciato una pila di fogli spessa quanto una decina di volumi. Talvolta, mentre li trascriveva, Artemis avvertiva un leggero capogiro. Quando sentiva lo stomaco brontolare, la domestica georgiana di casa, Maya, le preparava pietanze tipiche della sua terra. Tuttavia, una sola porzione non bastava a saziarla.
Per volere di Musa, in quella casa vigeva la regola del pasto unico: un solo piatto, un’unica pentola, una volta al giorno. Persino Maya, se aveva fame, si rifugiava in camera sua per sgranocchiare qualche snack comprato al supermercato. Artemis, allora, iniziò a portarsi dei grossi panini da casa. Li divorava circa un’ora prima che Maya servisse la sua gustosa pietanza. Poi si sedeva a tavola con lei, scambiavano qualche chiacchiera davanti a un caffè. Maya, con il suo turco ancora incerto, accennava qualcosa della figlia e della nipotina rimaste in Georgia. Quei racconti finivano in fretta perché Maya, temendo l’ira di Musa, si affrettava a sparecchiare e a sistemare i piatti in lavastoviglie.
Artemis non si interessava granché alla vita privata di Musa. Piuttosto, si chiedeva come avesse fatto a diventare così brillante.
Quando arrivavano i suoi studenti, Musa invitava Artemis a rintanarsi in una stanzetta e a proseguire con il lavoro. Eppure lei lavorava gratis per lui: che male ci sarebbe stato se, di tanto in tanto, avesse partecipato a una lezione di storia dell’arte? Talvolta origliava dal corridoio, ma Maya veniva a controllarla: ordini superiori.
Di frequente, Artemis era colta da crisi di starnuti. La biblioteca era parecchio impolverata. Talvolta, sfogliando libri acquistati in qualche libreria antiquaria, le capitava di scorgere minuscoli insetti—sorta di tarli dei libri. In un primo momento ne era inorridita, poi prese l’abitudine di schiacciarli con le dita: erano piccoli puntini color crema. Tuttavia, sembravano infiniti. Un giorno propose a Musa di far disinfestare la biblioteca. Lui aggrottò le sopracciglia:
«Quanto chiedono?»
Artemis contattò una ditta specializzata: sarebbero dovuti intervenire per ben tre volte, perché sbarazzarsi di quei parassiti non era affatto semplice. La ragazza tornò da Musa con il preventivo e propose, con l’aiuto di Maya, anche una pulizia accurata, disponendo i volumi per colore e per formato — sarebbe stato un toccasana anche per lui. A quelle parole, Musa le scagliò contro una penna:
«Fatti gli affari tuoi, bambina! Vai a lavorare, che è meglio.»
Le gambe di Artemis quasi cedettero. Fu Musa a uscire dalla stanza, facendo rimbombare sul pavimento il suo bastone.
Quella sera, Artemis incontrò un’amica in un bar e, sul punto di piangere, le raccontò tutto. L’amica la consolò ricordandole che uomini tanto importanti spesso hanno un’ego smisurato. Dopotutto, Musa era anziano, solo; forse era un narcisista, magari affetto da qualche disturbo della personalità. Il compito di Artemis era soltanto trascrivere i manoscritti, non di fare la ragazza ingenua che porta gioia e calore a un grande albero in fin di vita.
Artemis pensò di abbandonare lo stage. Ma sua madre, al telefono, la sgridò:
«Se ti arrendi di fronte alle minime difficoltà, non avrai mai successo nella vita.»
Tutti davano ragione a Musa. Ma si chiedeva: meritava davvero quello sgarbo?
Il giorno seguente, Musa la chiamò a sé. Artemis credeva che il professore volesse delle scuse. Invece le disse:
«Arte, oggi avrò un ospite molto importante. Tu resta in cucina e poi potrai andartene prima, se vuoi.»
Artemis aveva giurato a sé stessa di non rivolgere più sorrisi a quell’uomo, ma il modo in cui lui la soprannominava “Arte” le faceva pensare che fra loro si fosse creato un legame, seppur lieve. Di certo non voleva dare a chiunque l’impressione di essere incapace di reggere un conflitto con un vecchio. Prese con pazienza computer e appunti e si sistemò in cucina.
Un’ora dopo, arrivò una voce profonda. Un’eco di risate piene di sfarzo si diffuse per tutta la casa. Forse quel clamore avrebbe perfino spaventato quei minuscoli insetti. Poi calò il silenzio. Andando in bagno, Artemis udì qualche parola pronunciata con tono alterato dall’ospite:
«Musa, quel quadro dovevi distruggerlo! Ho già pagato io il conto.»
LISSA
Nella fabbrica tessile dove lavorava Lissa era scoppiato uno sciopero. Lei però non osava partecipare. Una donna dell’est le spense la macchina da cucire:
«Alzati, non siamo schiave!»
Lissa pensò al suo permesso di soggiorno, al suo salario e alla sua vita a Istanbul. Ma restò seduta. Un’altra donna le sferrò un calcio alla sedia:
«Unisciti a noi! Se il settore è in crisi, loro hanno bisogno di noi, non vedo perché non debbano aumentare gli stipendi.»
Allora Lissa si alzò, abbassando lo sguardo e si ritrovò in mezzo alle altre operaie. Il figlio del padrone, un tipo coi capelli rossicci e i denti storti, le rivolse un sorriso ambiguo. Lei ignorò la cosa. Qualche tempo prima, lui, da ubriaco, aveva tentato di toccarle il seno. Lissa gli aveva respinto la mano. E lui, stizzito:
«Non ho intenzione di prendermi l’AIDS da te.»
Lissa era rimasta in silenzio perché aveva bisogno di quel lavoro.
Fu proprio il figlio del proprietario a mettere tutti alla porta. Rimasero seduti davanti alla fabbrica. Alcuni uomini andarono in panetteria a comprare il pane, le donne presero pomodori e formaggio da un minimarket, e si divisero tutto. Sarebbero rimasti lì finché non fosse stato accordato un aumento. Lissa era immobile come una statua. Una donna scura di pelle le toccò la spalla:
«Non temere più, non possono licenziarci. E se lo fanno, troveremo un altro posto e ti porteremo con noi.»
Lissa le rivolse un timido sorriso. Proprio in quel momento, il cellulare squillò. Era Akuji in videochiamata:
«Voglio vedere la tua faccia» disse, invitandola ad allontanarsi dalle colleghe. Nello schermo, Akuji si trovava in un giardino che pareva quello di un palazzo signorile.
«Guarda, ho trovato un nuovo lavoro: due giorni a settimana pulirò questo giardino» spiegò, mostrando a Lissa l’ampio cortile e l’imponente edificio.
Lei, a sua volta, gli raccontò in breve dello sciopero. Akuji la incoraggiò: non doveva aver paura; forse i nuovi datori di lavoro lo avrebbero assunto a tempo pieno e chissà, avrebbero ospitato anche Lissa. Insieme parlarono di lavoro, soldi, amore con poche parole essenziali. Lissa si sentiva già sollevata, e Akuji promise che, al suo ritorno, l’avrebbe portata a un ristorante etiope.
Quando il padrone annunciò che avrebbe concesso l’aumento, celebrarono l’esito positivo dello sciopero bevendo bibite gassate. Poi chiamò Lissa in disparte:
«Non dimenticarti che il permesso di soggiorno lo abbiamo pagato noi» le disse.
Lissa, intimidita, rispose:
«Dio ve ne renda merito, io…»
Ma lui la interruppe con un cenno:
«Dovresti ringraziare, tu che dici di essere musulmana! E da ora in avanti dovrai riferirmi tutto ciò che accade qui. Hai capito?»
Lissa chinò il capo:
«Lode a Dio.»
Aveva gli occhi lucidi e un nodo in gola che da un’ora non riusciva a mandar giù. Con un sorso di cola, finalmente deglutì. Con la mente pregò per sé e per Akuji. Intanto il figlio del padrone urlò:
«Tutti ai posti di lavoro! Voglio i nomi di chi si fermerà a fare straordinario stasera…»
EFIL
In una minuscola stanza della dogana aeroportuale, Efil stava trattando con un funzionario basso di statura, nel tentativo di convincerlo. Indossati i guanti protettivi, prese in mano alcune tsantsas—testoline rimpicciolite provenienti dall’Amazzonia—appena sequestrate all’ingresso nel paese. Efil, che aveva contatti ovunque, si era fiondata lì all’alba per capire se ci fosse qualcosa di interessante. Forse erano false, ma voleva rischiare. Se Pertev fosse rimasto colpito, le avrebbe inserite nella sua collezione; in caso contrario, avrebbe potuto venderle a qualcun altro, o magari, molto più semplicemente, suscitare la curiosità di Pertev, testando di nuovo il proprio ascendente su di lui.
Efil allungò un po’ di denaro al funzionario mormorando:
«Possa andar bene.»
Scelse le due tsantsas più piccole, immaginandone la storia: un ragazzo e una ragazza, nell’Amazzonia, divisi dalla famiglia, uccisi dai loro parenti contrari a quella relazione. Le loro teste rimpicciolite, esposte a monito sulla piazza del villaggio per anni, erano poi passate di generazione in generazione, come la versione amazzonica di Romeo e Giulietta. Ora erano tra le mani di Efil.
Il funzionario accennò:
«Ci sono anche alcuni manoscritti della Torah…»
E lei, impassibile:
«Ne abbiamo già tante, grazie.»
Oltre a tutto ciò, Efil era la curatrice di una galleria d’arte di proprietà della banca di cui Pertev era il principale azionista. Trovava quegli impegni molto stressanti: dover dedicare ore e ore all’organizzazione la sfiancava. Una sera, a casa, in appena mezz’ora, inviò alla direzione della galleria l’elenco degli artisti che riteneva adatti al prossimo evento: tema “Sostenibilità e riciclo”. Inoltrarono a ognuno la richiesta di un’opera.
Intanto, alcuni studenti di Belle Arti le avevano mandato mail e portfolio. Efil, con la sua solita cortesia, rispose che avrebbe preso in considerazione i loro curriculum e, se l’avesse ritenuto opportuno, sarebbe andata a trovarli nei loro atelier. Di solito, con gli artisti funzionava così: li si lusingava per il loro talento, li si metteva da parte in attesa di un’eventuale occasione, ma mai bisognava mostrare troppa cordialità: sarebbe stato un attimo finire risucchiati dalle loro pretese. E poi, chi stabiliva se un’opera fosse autenticamente arte? Efil e i suoi simili.
Quella stessa sera si recò in un locale in un quartiere lontano, ispirato ai club berlinesi. Dall’esterno pareva tutto chiuso per lavori, ma chi sapeva, sapeva. Con un codice registrato sul cellulare, Efil entrò, si fece servire un cocktail speziato dal barista moro e gli chiuse la porta in faccia non appena lui tentò di attaccare bottone. Non aveva tempo per gli uomini. In quel posto, d’altronde, le piaceva ogni volta vedere persone diverse, sfuggendo alle solite formalità. Se entrando qualcuno l’avesse chiamata “Signora Efil, benvenuta”, si sarebbe sentita come in uno di quei ristoranti turistici pieni di moine.
Le venne in mente Ankara—l’ultima volta che ci era stata, aveva visto ovunque parcheggiatori, quasi che si contorcessero ai piedi dei ricchi appena scesi dall’auto. Ci andava soltanto per i suoi genitori, una visita all’anno, giusto per dovere. Scacciò quei ricordi, cercando di illudersi di camminare tra le strade di Manhattan. In futuro, sarebbe potuta andare davvero a New York, magari in una galleria d’arte. Chissà, forse Pertev l’avrebbe portata con sé in America… O magari no. Ma se Efil avesse ventilato l’idea che negli Stati Uniti avrebbe potuto spalancargli la strada per influenzare l’arte mondiale, allora tutto sarebbe diventato più semplice.
Si avvicinò una ragazza dai lunghi capelli e gli occhi azzurri:
«Salut!» disse.
Efil ringraziò mentalmente il cielo di dover trascorrere la serata con una francese di cui non conosceva la lingua.
PERTEV
Il nonno, il padre e i fratelli di Pertev avevano tutti ricevuto un’istruzione di altissimo livello. E, come seconda caratteristica, ciascuno di loro vantava un hobby a sé stante. La “corona” passava di padre in figlio, ma i passatempi cambiavano. Il nonno era un formidabile cavaliere e, nei primi anni della Repubblica, quando i cavalli sostituivano le auto, fu proprio lui a fondare allevamenti di cavalli in tutto il paese, promuovendo le prime corse. Non badò a spese, pur di lasciare un segno duraturo. Oggi, esiste ancora una corsa di cavalli dedicata al nonno, cui i nipoti assistono più per dovere che per amore, mentre i dipendenti della holding lo considerano un grande onore. Accanto al nonno, fra i principali pionieri di quel movimento, c’era il suo uomo di fiducia, Seyis Efe.
Il padre seguì le orme del nonno, ingrandì ulteriormente l’azienda grazie ai favori politici e si scelse un braccio destro di profonda fede religiosa. Con ogni mossa, crescevano più in fretta dell’intera economia del paese. Era necessario guardare al futuro. L’hobby del padre era collezionare auto d’epoca: un passaggio simbolico, dai cavalli alle automobili. Il popolo, in adorazione, ammirava quell’uomo ricco e influente. Chiunque sognava di possedere le stesse vetture apparse sui giornali che celebravano il padre di Pertev come l’uomo più benestante del paese. Era praticamente impossibile, ma i dipendenti si affacciavano alle finestre quando lui arrivava in fabbrica con una macchina nuova, per poter poi raccontare il tutto ai parenti la domenica successiva. Solo passarci accanto era un vanto: «Caspita, che macchina scintillante!» E in un certo senso, in tanti avrebbero voluto essere come quell’auto.
Il primogenito, fratello maggiore di Pertev, era famoso per la sua avvenenza. Riviste patinate avrebbero voluto metterlo in copertina, ma il padre glielo vietò: “È un dirigente, mica un attore.” Quando fu il momento, il padre gli cedette le redini della società, senza però congedare il fidato braccio destro. Si ritirò in Italia, comprò una casa su un lago e ricominciò a vivere. Uomo astuto, convinto che la vera vita potesse iniziare anche dopo i cinquant’anni. Ringraziarono Dio, mano nella mano.
Il fratello maggiore era anche un nuotatore provetto, si comprò una barca a vela e iniziò a praticare lo yachting. La parte interessante, però, era invitare a bordo i dirigenti dell’azienda e impartir loro istruzioni. All’inizio, tutti erano entusiasti di passare del tempo con il patron, fingendo per qualche istante di essere come lui. “Il capo ci vuole bene!” mormoravano in azienda, ma poi, a un tratto, il fratello maggiore smise di socializzare con i propri dipendenti, e la novità non dispiacque nemmeno ai dirigenti, stanchi di spendere soldi per mute da sub, paranchi da vela e perfino attrezzatura da montagna, visto che il capo voleva anche fare alpinismo.
In privato, però, il fratello maggiore chiedeva consigli a Musa. Nessuno lo sapeva. E in effetti Musa aveva influenza su di lui: scriveva articoli sui giornali, faceva programmi televisivi, fondava scuole d’arte, sempre con il sostegno dell’erede. E non sbagliò mai, perché la compagnia crebbe ancora. Le fabbriche aperte all’estero erano state un’idea di Musa.
Quelle che furono poi chiuse, invece, furono vittime del fratello di mezzo. Proprio da lui partì lo slogan “Siamo una famiglia”. È vero che migliaia di lavoratori si sentivano uniti da un profondo legame affettivo, ma finanziariamente l’azienda non ricavava utili. Perciò non gli avrebbe mai ceduto il controllo. Non fosse morto il fratello maggiore d’infarto mentre era in barca a vela, tutto sarebbe rimasto immutato. I dipendenti si rattristarono sinceramente, forse ancor più dei familiari. Quel fratello era in grado di creare empatia.
Il fratello di mezzo, invece, si barcamenava tra mille idee. Pur avendo anch’egli un master, non sapeva governare. Il padre incaricò cinque figure di fiducia di affiancarlo, per impedirgli di travolgere l’azienda con le sue scelte scellerate. Il fratello minore, Pertev, osservava tutto da lontano, come se la cosa non lo riguardasse. E vedeva le buffe passioni del fratello di mezzo: quest’ultimo suonava il fagotto (o meglio, tentava di suonarlo) e, avendo i mezzi economici, fondò un’orchestra sponsorizzata dall’azienda. Ai dipendenti, questo comportava l’acquisto obbligato di nuovi strumenti, e due sere a settimana di prove musicali. Una specie di “Banda di paese” in salsa familiare. Perdevano ore, spesso con stipendi tagliati, ma “la musica nutre l’anima”, dicevano… e i dipendenti non erano più così ingenui come in passato: iniziavano a capire che avrebbero preferito miglioramenti concreti e rispetto dei propri diritti.
Pertev osservava tutto in silenzio. Forse era il più saggio, perché non si era mai immischiato, costruendosi un’esistenza a parte e un’immagine impeccabile. Tuttavia, sentiva di scoppiare: un trauma infantile lo tormentava da anni, e solo a Londra, grazie a uno psicologo, era riuscito a intravederne l’origine. Ora, con l’aiuto di Efil, stava trovando un metodo per affrontarlo. Pareva quasi che i due avessero la stessa mente: Efil leggeva i suoi pensieri e gli procurava opere d’arte come pietre su cui avanzare verso l’isola deserta della sua psiche. E più l’assecondava, più Pertev scopriva la propria sessualità, avvicinandosi a quella parte di sé ancora inesplorata.
Un giorno Efil reclutò dieci persone per lui. Vennero a tarda notte da Cipro, nella villa del nonno. Si entrarono in una stanza nascosta, e Pertev impartiva ordini tramite un sistema audio. Alcuni erano culturisti, altri si prostituivano per denaro. Efil aveva scelto con cura aspetto e tipologia: le donne dovevano essere bionde, gli uomini moretti. Iniziò chiedendo alle donne di leccare gli occhi degli uomini. Tutti eseguirono come soldati. Poi chiese di leccare i loro volti. Ubbidirono senza esitare. Il ventre di Pertev prese a bruciare. Anche Efil era in preda all’adrenalina: aveva piazzato una microcamera per non perdersi la performance.
Le donne ora erano sdraiate sul pavimento, mentre gli uomini succhiavano loro le dita dei piedi. A un tratto, Pertev fermò tutto. Era chiaro che tutti attendevano il segnale di dare il via ai rapporti sessuali. Lui invece ordinò a ciascuno di masturbarsi. Le donne non si fecero problemi; gli uomini, però, a causa delle sostanze dopanti, non riuscivano a raggiungere l’erezione. Infastidito, Pertev cacciò tutti gli uomini. Le donne, un po’ stupite, proseguirono da sole, cercando il proprio piacere. Lui si soffermò su una di loro, la sola che sembrasse provare un autentico orgasmo. Tutte le altre furono allontanate. Poi intimò a Efil di entrare e di prendere la corda in un armadio, per appendere la donna al soffitto. Efil esitò, non voleva rendersi complice di qualcosa che la faceva sentire estranea a quel mondo.
Proprio allora, la porta si spalancò e fece ingresso un individuo con una tuta nera e una maschera. Mentre Efil si apprestava a uscire, l’uomo posò la mano tra le gambe della donna ancora in estasi, pulendo con un fazzoletto. Lo porse a Efil, che fuggì dalla stanza con le mani tremanti, in cerca di un sacchetto dove riporre quel fazzoletto insozzato. Dall’interno udì un urlo:
«Fermati!» strillava la donna.
Efil si affacciò alla finestra: l’auto di Pertev stava già sfrecciando via. Chi era, dunque, l’uomo nella stanza? Rientrò e trovò la ragazza appesa al soffitto.
«Scusa», disse lei, «non conoscevo la parola d’ordine.»
Efil tagliò subito la corda, le diede un po’ d’acqua. La ragazza mormorò con sollievo:
«Grazie a Dio…»
Efil le ripulì le mani sporche di sangue, che per fortuna non era il suo.
Il problema era che l’erede successivo poteva far diventare le proprie strane passioni l’hobby dell’intera holding.
Tutti i diritti appartengono all’autrice Evrim Ozsoy. Vietata qualsiasi citazione.
Progetto di una serie in sette episodi: “Il Dio dell’Arte”.
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